Andare a vedere la mostra dedicata a Hans Hartung dall’Istituto nazionale per la grafica in occasione della donazione di 138 opere su carta che la Fondazione Hartung-Bergman ha devoluto al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (La radice del segno. Hans Hartung. L’opera grafica visitabile fino al 2 marzo 2014) capovolge il senso comune dell’osservatore anche accorto. Se si parte infatti dalle opere più lontane nel tempo per raggiungere quelle più vicine nella normale logica dell’avvicinamento, si è obbligati anche a cominciare da un inusuale percorso che va dalle litografie, xilografie, acqueforti per giungere alla pittura, a quei segni precisi netti, limpidi inflitti alla «pasta morbida dei colori», come diceva Hartung stesso.

Il percorso definito come normale è spesso in direzione opposta e conduce dalle pitture al loro versarsi nell’opera grafica, ma questo procedere tradizionale non chiarisce troppe caratteristiche del fare arte del pittore franco-tedesco. Camminando nelle sale dell’Istituto, si capisce molto di più in un modo tanto semplice quanto troppo spesso non contemplato nel rapporto con l’arte visiva, si entra cioè dentro al senso per la porta delle tecniche e della loro scelta da parte di un artista. Se nel 1969, Giulio Carlo Argan scriveva infatti che l’oggetto della ricerca di Hartung era «l’origine del segno, ma non il senso originario del segno, bensì l’atto che lo produce» vuol dire che non c’è scampo e che dalla purissima e nitida materialità delle tecniche di incisione bisogna partire per afferrare il senso dei segni di colui che, a tutti gli effetti, cercò per se stesso il titolo di graveur-peintre datogli da Reiner Michael Mason. La virtù interpretativa che può esserci in un luogo espositivo che per sua vocazione e per abilità professionali sa diventare capace di illuminare il percorso creativo di un artista, risalta tutto in questa mostra.

Grazie infatti all’allestimento che pone accanto agli acrilici e agli oli, in un ampio dispiegarsi cronologico e in un continuo rimandare alla lettura comparativa tra opere, tutte le tecniche di incisione usate da Hartung, ma anche i rami, l’esatto elenco degli strumenti e dei materiali usati e precise indicazioni tecniche, si segue con lucidità quella che fu la scelta precisa dell’artista. Si ricompone l’itinerario che dal 1922 fino alla morte nel 1989 lo condusse a una lenta, costante, progressiva accumulazione di segni, di linee morbide e flessibili, dritte e rigide, scarne o piene, ma mai improvvise entro cui infilare, far incarnare «tutto quello che è germinazione, crescita, slancio vitale, resistenza, dolore o gioia» per citare le sue parole. Mai improvvise, si diceva, perché lo scarabocchiare, il grattare, l’incidere sono un’approssimazione lentissima, fatta di moltissime serie di calcografie o litografie, di una gran quantità di tirature a cui aggiungere o magari levare, di un costante sovrapporsi di possibili varianti non a un risultato finale che non sembra essere per l’artista l’aspetto più ricercato, ma a un’opera aperta che rimanda immediatamente al segno successivo, all’infinito informale.

Questa mostra ha un effetto di autentica sinestesia. Riconduce costantemente il visitatore alla necessità logica di far combaciare tecnica e vista, strumento e opera e non permette divagazioni. Attraverso l’odore dello zinco e del rame trattati con gli acidi, dell’inchiostro, della gomma lacca che dopo un po’ sembra di percepire nell’aria, così come tramite il rumore di strumenti tipici o impropri che Hartung usava per infliggere o tracciare segni che pare di udire, si arriva alla percezione nitida della ricerca tenace e coerente interna alla carriera assai lunga di questo maestro distanziatosi dal Bauhaus, ma non certo dall’esigenza «artigiana» che ne aveva connotato anche le esperienze più astratte e concettuali.

Una mostra quindi che, evocando l’intervento di altri sensi, svela alla vista significati non altrimenti ben definibili, in una sorta di paradosso critico e conoscitivo che si pone come interfaccia indispensabile ai bei filmati che concludono la visita e su cui spicca Visite à Hans Hartung di Alain Resnais di cui il pittore scrive nel suo Autoportrait: «Il film mi pareva particolarmente riuscito in quanto il silenzio e l’intensità del lavoro sono visibili e ascoltabili, se si può dire questo di un film muto».