In un celeberrimo e citatissimo passo delle Confessioni, alla domanda intorno alla natura del tempo, Agostino risponde emblematicamente: «se nessuno me lo chiede, lo so, ma se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede non lo so». Il problema del tempo ci getta immediatamente in un abisso di aporie: la sua esistenza appare tanto inesorabile e irrevocabile, quanto indefinibile e impalpabile, tra un passato che non è più, un futuro che non è ancora e un presente ridotto a pura singolarità intangibile. Che cos’è dunque il tempo? Prima ancora di pronunciare la domanda, ci si dovrebbe forse chiedere come essa vada posta, interrogando le forme che articolano la nostra stessa interrogazione.

Una nuova prospettiva
Il problema per François Hartog – che si formò alla scuola del grande grecista Jean-Pierre Vernant – non è tanto stabilire da un punto di vista schiettamente filosofico quale sia la natura del tempo in quanto tale: a interessarlo non è né il tempo come kantiana forma a priori dell’esperienza, né quella filosofia della storia che si estende da Herder e Hegel fino a Löwith e oltre. Piuttosto, a essere messi a tema sono quelli che, in un’opera precedente, Hartog ha chiamato i diversi «regimi di storicità»: ossia le forme – al plurale – che strutturano l’esperienza e danno corpo al tempo storico, collegando la dimensione esperienziale della temporalità individuale con quella collettiva.

Hartog torna ancora su questo tema nel suo nuovo libro Chronos L’Occidente alle prese con il tempo (traduzione di Valeria Zini, Einaudi, pp. 310, € 25,00), dove non si tratta più di mappare le diverse forme di strutturazione dell’esperienza storica e temporale, quanto di «far luce sulle crisi del tempo». Lo sguardo si rivolge qui a quei momenti in cui l’esperienza vacilla e «si confondono i modi di articolare passato, presente e futuro». Non stupisce quindi che i due poli su cui si stende la trattazione siano la storicità cristiana, da un lato, e l’avvento dell’Antropocene dall’altro. Al centro sta insomma la doppia svolta «aperta con la crisi cristiana del tempo», e con «crisi contemporanea del tempo». La possibilità di pensare la discontinuità attraverso i diversi regimi di storicità è garantita dall’assunzione di tre «operatori», che rappresentano altrettanti strumenti per concettualizzare il tempo: Chronos, Kairos e Krisis. Se Chronos è il tempo nel suo corso quantitativo, vincolante e inarrestabile, Kairos è invece il tempo qualitativamente differente, che apre sull’istante e sull’inatteso separando Chronos in un prima e un dopo.

In questa sua dimensione singolare, capace di separare e distinguere, Kairos è apparentato alla nozione di Krisis, che designa il momento decisivo del giudizio, al centro del regime di storicità biblico e cristiano. Quest’ultimo, scaturito da una tensione apocalittica, coglie il corso della storia all’interno della divaricazione aperta da un lato dall’evento cairologico della resurrezione e dell’evangelo e dall’altro dall’avvento escatologico del Giudizio.
Il presente storico di Chronos viene quindi scisso nel presente «tempo della fine» – inaugurato dall’evento cristico – e nella futura «fine dei tempi», sancita dal Giudizio Finale. Il primato del tempo cairologico della salvezza su quello mondano di Chronos strutturerà l’intera parabola cristiana fino alla svolta moderna, che troverà invece nel primato del tempo terreno e del futuro il proprio baricentro. Ma cosa accade nel momento in cui il regime di storicità tipico del moderno, indirizzato verso il futuro viene a perdere questa dimensione? Cosa succede, in altri termini, nel momento in cui, come oggi, il futuro sembra tendere alla catastrofe? La prima reazione è quella di ripiegare l’orizzonte delle proprie aspettative sul presente: privo tanto della trascendenza cairolgica del cristianesimo, quanto di quella storica del moderno, il culto del presente diventa «orizzonte per se stesso». È in questo contesto che l’Antropocene segna non solo un ritorno di Chronos, ma anche di quella scissione che stava alla base del regime di storicità cristiano.

L’Antropocene, infatti, ci mette davanti alla storia incommensurabile delle epoche geologiche: questo tempo Chronos che è «totalmente impossibile convertire in tempo umano», «irrappresentabile», diventa contemporaneamente il limite del tempo mondano, del presente, del nostro orizzonte d’attesa. La scissione è violenta. Dal momento in cui «è posto un limite», il presente diventa «il tempo che resta» caricandosi di tensione cairologica: di qui la venatura apocalittica che attraversa il nostro presente in diverse forme.

Simultaneità e non
Se è facile liquidare ogni analogia del presente con il regime di storicità cristiano, per Hartog quel che conta è l’identica condizione di scissione a cui il tempo cristiano aveva cercato di rispondere, e davanti alla quale ci troviamo ancora oggi. Lo «scarto tra temporalità profondamente discordanti», proprio dell’Antropocene, ci costringe ad affrontare a nostra volta quell’esperienza «di simultaneità del non-simultaneo» su cui si era edificato il regime di storicità cristiano, tra storia degli uomini ed eccedenza cairotica. Il problema sarà dunque come «districare il groviglio delle temporalità multiple, conflittuali»; ciò che comporta la necessità di tornare, sulla scorta di Benjamin, a «fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo».