«È stato un po’ come il Forrest Gump di Hollywood: non per una questione di scarsa intelligenza, ma perché si è imbattuto nelle circostanze più incredibili», aveva detto di Harry Dean Stanton il suo assistente in un documentario del 2012 di Sophie Huber interamente dedicato al character actor .
Più che imbattercisi in modo fortuito, l’attore scomparso lo scorso venerdì a 91 anni ha attraversato «discretamente», nel corso di oltre sei decadi di carriera sul grande e piccolo schermo, una buona parte della storia del cinema americano: dalla nascita della nuova Hollywood all’alternarsi di generazioni di registi, alcuni dei quali – come David Lynch – lo hanno eletto attore feticcio pur senza mai assegnargli un ruolo da protagonista – ma d’altronde potrebbe essere stato lo stesso Stanton a non volerlo: «Richiede troppo lavoro» aveva detto in un’intervista.

Alien di Ridley Scott, Il padrino parte II, Fuga da New York, L’ultima tentazione di Cristo sono alcuni dei titoli più famosi a cui ha prestato il suo volto solcato dal tempo sin dalla giovane età, e sempre inconfondibile nonostante una carriera esclusivamente da caratterista.
Stabton infatti  ha vestito solo in due occasioni il ruolo del protagonista: la prima volta quando aveva già 58 anni – nel 1984 – in Paris, Texas di Wim Wenders dove interpreta Travis, vagabondo senza meta perso nell’abbacinante deserto del Texas, con un conto da saldare con una vita di cui non può più fare parte. Ad avvicinarlo per interpretare Travis non era però stato il regista tedesco ma l’amico Sam Shepard, autore della sceneggiatura: «Mi ha detto che il protagonista non parlava per i primi 30 minuti, e così mi ha convinto», aveva ricordato Stanton con l’ironia e l’assenza di romanticismi che gli era propria – anche se parlerà sempre di Paris, Texas come del film più importante della sua vita.

Nato nel 1926 in Kentucky e arruolato appena maggiorenne nella marina durante la seconda guerra mondiale, racconterà a David Lynch che lo intervista nel documentario a lui dedicato l’esperienza nella battaglia di Okinawa, dei kamikaze giapponesi e della difficile ripresa della vita civile.
Al suo ritorno, nonostante gli studi in giornalismo, comincia molto presto a lavorare come attore: negli anni ’50 e nei primi ’60 è soprattutto in televisione, quasi sempre nella parte del cowboy o del gangster, e già da allora in alcuni dei titoli più famosi dell’epoca: Alfred Hitchcock Presents, The Untouchables, Bonanza

Il film della svolta, come lo definisce lui stesso, arriva nel 1966: è Le colline blu di Monte Hellman, in cui ancora una volta lo vuole un amico, sceneggiatore e protagonista del film, Jack Nicholson, il primo a chiedergli di recitare naturalmente: «Il tuo personaggio si chiama Blind Dick Reilly, ed è il capo della gang. Ha una benda sull’occhio a un cappello a bombetta. Lascia che sia il guardaroba a recitare la parte. Che voleva dire sii te stesso», aveva ricordato molti anni dopo Stanton , che torna a lavorare con Monte Hellman anche in Strada a doppia corsia – dove è l’autostoppista omosessuale caricato a bordo dai due protagonisti senza nome interpretati da Warren Oates e James Taylor – e Cockfighter.

Ad accompagnarlo è anche sempre la passione per la musica: chitarrista e cantante sin dalla giovinezza, ha spesso delle parti musicali (come in Nick mano fredda) ed è amico di musicisti come Kris Kristofferson – che inizia alla carriera da attore in Cisco Pike – e Bob Dylan, con cui pure lavora in Pat Garreth e Billy the Kid di Peckinpah, e che volle Stanton nel suo Renaldo e Clara.

Ma il regista che lo chiama più spesso – nonostante l’attore racconti di aver rifiutato la parte di Dennis Hopper in Velluto Blu: «Non volevo avere a che fare con quelle emozioni» – è David Lynch, anche uno degli ultimi a dirigerlo, nei panni del Carl Rodd di Fuoco cammina con me, nella terza stagione di Twin Peaks oltre che in Cuore selvaggio, Una storia vera e Inland Empire. Fianco a fianco, i due amici hanno anche recitato nell’ultimo film di Stanton, l’unico altro ruolo da protagonista: Lucky di John Carroll Lynch. Era stato proprio il regista di Twin Peaks, con cui Stanton condivideva l’impenetrabilità, a chiedergli come avrebbe voluto essere ricordato: «Non è importante», gli aveva risposto l’amico.