Se New Orleans è il luogo di nascita del jazz, dalla metà degli anni ’20 fino ai primi anni ’50, l’Onyx Club sulla West 52nd Street ne fu la capitale mondiale. Il club ospitava gli artisti più talentuosi dell’epoca. Entrando nel locale in una sera qualsiasi, non era insolito ascoltare il sax vivace di Charlie Parker alternarsi al suono ipnotico della tromba di Dizzy Gillespie. L’innovazione stilistica continua e le improvvisazioni del jazz, quell’attitudine rilassata, confidente, erano lo specchio di un cambiamento culturale in atto a cui lo status quo si oppose ferocemente. La marijuana fu una dei protagonisti di questa rivoluzione.
DALL’OTTOCENTO
Sebbene la cannabis fosse presente negli Stati Uniti sin dall’Ottocento, il consumo a livello ricreativo era una pratica relativamente oscura che venne importata dal Messico in seguito all’ondata migratoria degli inizi del ’900. In quell’epoca la cultura bianca non abbracciò la marijuana, considerata sostanza associata agli strati più bassi della popolazione: neri, messicani e criminali.
È a New Orleans, nel quartiere a luci rosse di Storyville, luogo di nascita di Louis Armstrong, che inizia la connessione tra musica popolare e cannabis. I musicisti neri che lavoravano nei bordelli, «ispirati dall’erba» iniziarono a sperimentare ritmo, tempo e improvvisazione, creando una nuova forma di musica chiamata jazz.
Nel 1926 la popolarità della cannabis e il suo uso erano così diffusi in città che il New Orleans Morning Tribune, sotto pressione delle associazioni conservatrici, decise di pubblicare una serie di articoli sensazionali che esageravano gli effetti della marijuana, denunciando anche lo «scandalo» di «vedere musicisti jazz neri e messicani fumare quel veleno vicino ai giovani bianchi». Durante gli anni Trenta, l’influenza della marijuana era così palpabile che diverse canzoni che alludevano all’uso ludico della cannabis furono incise e pubblicate dalle principali etichette discografiche. Da Duke Ellington a Louis Armstrong tutti fumavano erba. In alcuni scritti privati di Armstrong si trovano diverse testimonianze della sua passione per le «canne».
LE COSE BRUTTE
La marijuana – scrisse – «ti rilassa, ti fa dimenticare tutte le cose brutte che accadono a un negro. Ti fa sentire desiderato e quando sei con un altro fumatore, ti fa sentire una parentela speciale».
Nel 1930 divenne la prima celebrità a essere arrestata per aver fumato cannabis. Lui e il suo batterista Vic Berton furono arrestati davanti al famoso Cotton Club di Culver City, California; entrambi furono condannati a sei mesi di carcere e a una multa di 1000 dollari. Tra le convinzioni dei conservatori c’era la necessità di tenerla lontana dalle minoranze, in particolare da artisti intrattenitori; sono state innumerevoli le menzogne inventate sugli effetti negativi della cannabis. È «più pericolosa dell’eroina o della cocaina» e ancora: «Se il terribile mostro Frankenstein si trovasse faccia a faccia con la marijuana, cadrebbe morto di paura». Questo tipo di isteria anti-marijuana servì da catalizzatore per la propaganda successiva.
Documentari come Reefer Madness e Marihuana, the Assassin of Youth vennero proiettati nelle scuole. Usando in modo ripetitivo e persuasivo l’oscuro termine slang messicano, la parola marijuana viene così introdotta per la prima volta nel lessico inglese, cancellando dalla memoria collettiva i termini molto più familiari di cannabis e hemp.
Nessuno psicologo, medico o scienziato aveva confermato le fandonie del governo sulla pericolosità della canapa, ma i contorni del problema erano chiari: a fumare l’erba erano le minoranze e questo offriva un escamotage ideale per mascherare la questione razziale dietro una questione di puro ordine pubblico.
Il film Reefer Madness, per esempio, arrivò nelle sale nel 1936, nel medesimo anno in cui Stuff Smith, violinista e frequentatore abituale dell’Onyx Club, compose la canzone If You’re a Viper, dove viper è il termine che i musicisti jazz usano per riferirsi ad altri fumatori di marijuana per via di quella sorta di sibilo che si emette quando si aspira una canna.
Il termine era già comparso in numerose tracce precedenti, come Texas Tea Party di Benny Goodman (tè del Texas, è un altro nome in codice per la marijuana).
IL PRIMO ZAR
Da notare che il titolo di primo zar anti-droga negli Usa appartiene a un uomo poco conosciuto, un funzionario del governo di nome Harry Anslinger, divenuto direttore del Bureau of Narcotics nel 1931. «Ci sono 100mila fumatori di marijuana in totale negli Stati Uniti, e la maggior parte sono negri, ispanici, filippini e musicisti – affermò -. La loro musica è satanica, jazz e swing derivano dall’uso di marijuana. Questa marijuana fa sì che le donne bianche cerchino rapporti sessuali con negri, i musicisti e altri». In un’altra occasione affermò: «La marijuana fa credere ai negri di essere come i bianchi». Insieme all’editore Hearst mise in piedi una campagna stampa basata su disinformazione, sensazionalismo, falsità e terrorismo. I titoli cubitali dei giornali parlavano di «negri che violentano donne bianche sotto l’effetto della marijuana» e di numerosi incidenti automobilistici causati dall’«erba assassina». Nel ’37 fece approvare il Marijuana Tax Act che ne ne proibì l’uso e la coltivazione, anche a scopo medico, in tutti gli Stati Uniti. Va da sé che alla base della cosiddetta «Guerra alla droga» ci fosse un movente fortemente razzista. Da notare che all’inizio della sua carriera, Anslinger non sembrava preoccupato per la marijuana. Ma quando il proibizionismo finì, ritenendo di potersi ritrovare senza lavoro, cercò una nuova minaccia. Come spiega Johann Hari nel suo libro Chasing the Scream: The First and Last Days of the War on Drugs, Anslinger era focalizzato sulla cocaina e l’eroina, ma al fine di garantire un futuro promettente al suo ufficio, «aveva bisogno di più».
BIGLIETTO D’ORO
La marijuana era il biglietto d’oro di Anslinger. Utilizzò la sua posizione per creare un’associazione, una sorta di binomio tra erba e violenza, così da poter criminalizzare gli utilizzatori. «Fumi una canna e probabilmente ucciderai tuo fratello».
I proibizionisti erano ben consapevoli della parentela tra musica jazz e marijuana. Anslinger ha, infatti, spiato e schedato importanti musicisti jazz come Armstrong, Dizzy Gillespie, Thelonius Monk, Count Basie, Jimmy Dorsey, Duke Ellington, Lionel Hampton e Cab Calloway.
Negli anni successivi, Anslinger avrebbe avuto una mano decisiva in tutta la legislazione nazionale sulle droghe, incluso il Boggs Act del 1951 con cui si irrigidivano le pene per il possesso di marijuana. Rimase al timone del Federal Narcotics Bureau fino all’amministrazione Kennedy, e le sue idee furono rapidamente adottate dai suoi successori, sempre a scapito degli afroamericani.
Con l’entrata in scena di Richard Nixon e la sua personale versione della «Guerra alla droga», negli anni Settanta la popolazione carceraria iniziò a crescere. Anche Reagan rinvigorì tali pratiche adottando un approccio duro contro la criminalità con la politica della «tolleranza zero» mentre Clinton si distinse per diverse leggi repressive quali il Violent Crime Crontrol e il Law enforcement Act del 1994.
Ma quanto è cambiato da allora? Molti stati Usa hanno trovato una via alla legalizzazione, con vantaggi economici stimati attorno ai 57 miliardi di dollari e sociali con oltre 300mila posti di lavoro entro il 2027. Il governo federale è riuscito ad eliminare il linguaggio razzista dalle dichiarazioni ufficiali ma non quelle politiche anti-droga razziste che sono tuttora attive in larga parte degli Stati Uniti.
L’iniquità etnica in ambito carcerario è lampante. Sebbene i neri siano solo il 13% della popolazione, rappresentano il 36% dei 2,2 milioni di detenuti presenti negli Usa. Mentre i bianchi sfruttano il cambiamento di atteggiamento nei confronti della marijuana, il razzismo che ha guidato la repressione a essa associata viene ignorato, così come le conseguenze di quelle politiche sulle comunità nere.