Terzo romanzo della ghanese Ayesha Harruna Attah, I cento pozzi di Salaga (Marcos y Marcos, pp.304, euro 18) è il primo a essere tradotto in italiano e uscirà domani, 13 febbraio, in contemporanea in cinque paesi, rivelando una giovane voce africana che affronta tematiche chiave per il continente – la schiavitù, il colonialismo, le questioni religiosa e femminile, con freschezza e leggerezza di tocco.
Attraverso l’incrocio casuale dei destini di due donne molto diverse tra loro (Wurche, principessa mascolina e ribelle, e Aminah, umile ragazza di un villaggio fatta schiava), il romanzo ripercorre la storia precoloniale del Ghana, gettando luce sul fenomeno ancora poco esplorato della schiavitù interna e delle lotte tribali tra le popolazioni locali che cedono alla corruzione occidentale e alla dominazione, facendo del commercio di esseri umani una fonte di lucro e potere. L’esperienza coloniale si è conclusa in Ghana da sessant’anni ormai (fu la prima colonia britannica a raggiungere l’indipendenza nel 1957) ed è oggi considerato un esempio di democrazia e progresso.

«I cento pozzi di Salaga» esplora la storia precoloniale del suo paese, gettando luce su un fenomeno ancora poco conosciuto in Europa, la tratta degli schiavi, interna e per estensione trans-saharina e trans-atlantica, nel XIX secolo. In che misura il suo libro è un romanzo storico e quanto i suoi connazionali e gli africani in genere sono consapevoli di questa loro realtà?
I cento pozzi di Salaga narra, romanzandola, la storia della mia bis bis-nonna ambientata negli anni ’90 dell’Ottocento, nell’Africa Occidentale precoloniale, mescolando eventi reali ad altri fittizi. Ho iniziato le ricerche nel 2012 e ci sono voluti sei anni per scriverlo e pubblicarlo. Sono andata nella parte nord del Ghana a visitare Salaga, dove un tempo si teneva un grande mercato di schiavi, ho letto resoconti di viaggiatori e le cronache della guerra civile che ha reso il paese vulnerabile alla colonizzazione. Le persone in Ghana, e per estensione gli africani, conoscono molto poco questi fatti. A scuola si studiano la Conferenza di Berlino e il processo di colonizzazione, ma in maniera teorica e assai distante dalla vita quotidiana. Volevo dimostrare come questi eventi siano in realtà non troppo lontani nel tempo e come abbiano creato effetti ancora percepibili. Spero che il libro susciti un dibattito tra la gente e nelle famiglie (come alcuni lettori già mi dicono stia accadendo), circa la natura umana, e su come sia possibile che, ancora oggi, rendiamo possibile la persistenza di pratiche disumane, quali la schiavitù.

Lei crede che siti Unesco come il Castello di Elmina e quello di Cape Coast (ex fortini mercantili coloniali e depositi di schiavi che da lì venivano imbarcati per il Nuovo Mondo, il Ghana ne conta in tutto trentanove sulle sue coste atlantiche) e festival artistici come il Panafest incidano sulla coscienza collettiva del paese e svolgano il ruolo di «siti della memoria»? Oppure sono diventati fenomeni turistici e commerciali per ricchi africani della diaspora?
Penso che servano come moniti fisici di un terribile passato ma ricordano soltanto il commercio transatlantico e non quello interno, di cui sappiamo ancora molto poco in Ghana, oggi. Luoghi come Elmina, poi, sono certamente diventati attrazioni turistiche, richiamando gli africani della diaspora a festival come il Panafest. Quest’anno ricorre il quarto centenario dall’arrivo dei primi schiavi a Jamestown, in Virginia, ed è stato rinominato «L’anno del Ritorno». Sarà interessante registrare quali conversazioni si apriranno in Ghana al riguardo.

Nel suo libro si affrontano questioni come i matrimoni combinati e la capacità di autodeterminazione delle donne: possiamo considerarlo un romanzo femminista? Qual è il ruolo della donna nella società ghanese contemporanea?
Certo, il libro è incentrato su due donne che cercano uno spazio per se stesse e per i loro sogni in un mondo altamente patriarcale. In questo senso, può definirsi un romanzo decisamente femminista. Le donne sono sempre state potenti nella storia del Ghana, ma come in molte altre parti del mondo le loro storie tendono ad essere sepolte o cancellate, e non sono abbastanza visibili nei luoghi di potere. Non è mai esistita una presidente e non sono sicura che ciò possa accadere in futuro. Ma c’è anche un’interessante differenza in Ghana. Se si visitano i mercati e si sfogliano i livelli della società, allora ci si rende conto che a far muovere le cose sono proprio loro, le donne!

Qual è il retaggio coloniale nel suo paese oggi, soprattutto in relazione alla democrazia e al dialogo inter-religioso? L’Islam è ancora una religione tollerante e inclusiva come era in molte civiltà precoloniali o ci sono anche da voi minacce di estremismo e violenza anti-occidentali, come in molti dei paesi confinanti?
In Ghana, cristiani e musulmani hanno trovato una via di convivenza pacifica. Ognuno vive e lascia vivere. Nella nostra famiglia, mio padre è musulmano e mia madre cristiana. Noto la stessa convivenza pacifica in Senegal. Abbiamo però ancora una lunga strada da percorrere per decolonizzare la nostra mentalità ed elaborare il trauma della colonizzazione. Già il fatto che io possa scrivere solo in inglese è problematico. Abbiamo bisogno di nuovi modelli per trovare il nostro cammino nel mondo.