La mitica Harley Davidson s’impenna sulla pancia di Trump. È appena iniziata la guerra dei dazi doganali e già se ne vedono i primi effetti. La mitica Harley Davidson, la moto che ha fatto sognare le generazioni pre e post sessantottine, che ha rappresentato un simbolo di libertà made in Usa, ha deciso di trasferire una parte della sua produzione in Europa, molto probabilmente in Bulgaria o in un altro paese dell’est europeo. Il motivo è noto: i dazi doganali sulle auto e moto made in Usa che l’Ue ha previsto di mettere come contromisura e risposta ai pesanti dazi sull’acciaio e l’alluminio europeo voluti dal presidente Trump. Siccome l’Europa rappresenta per questa famosa casa di moto una parte rilevante del suo mercato (oltre 40 mila moto l’anno) ha ben pensato che fosse il caso di trasferire all’estero quella parte della produzione che è destinata a questo mercato.

Ma, questo è solo un primo caso: se Trump insisterà su questa strada porterà l’economia nordamericana verso un tunnel senza vie d’uscita. In primis, ritornerà a marciare l’inflazione come non la vedevamo dagli anni ’70.

Se c’è un fatto che spiega il perché il tasso d’inflazione si sia mantenuto così basso in questi decenni, malgrado la massiccia immissione di liquidità nel sistema economico Usa, è la presenza di una forte concorrenza internazionale e l’enorme importazione di merci asiatiche a basso costo. Operazione questa che è stata in gran parte condotta dalle imprese multinazionali statunitensi che, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso (come documentò a suo tempo Giovanni Arrighi), hanno iniziato un processo di decentramento produttivo, un processo di deindustrializzazione che ha colpito gran parte del territorio Usa e che è stato in parte compensato dalla crescita abnorme del terziario privato e, soprattutto, dei servizi finanziari e assicurativi. In breve le multinazionali Usa hanno trasferito all’estero gran parte delle produzioni dell’industria leggera e in parte pesante (ad esclusione dell’industria militare), ma il loro principale mercato di sbocco sono sempre gli States.

Se per via dei dazi aumenta il costo dei beni prodotti all’estero le multinazionali non faranno altro che trasferire sui consumatori americani il maggior costo, colpendo il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti e quindi anche quella parte della classe operaia nordamericana che ha votato per Trump. Allo stesso modo quelle imprese Usa che esportano nel resto del mondo si vedranno colpite come la Harley Davidson e penseranno bene di trasferire all’estero una parte della loro produzione.

La politica dei dazi doganali per difendere le produzioni nazionali ha origini antiche ed è servita, dopo la rivoluzione industriale, a proteggere l’industria nascente che si affacciava sul mercato mondiale e doveva fronteggiare il gigante inglese. Così la Germania di Bismark, seguendo la teoria dell’economia nazionale di Friedrich List , puntò a proteggere l’industria nascente dando allo Stato un compito complessivo di indirizzo strategico. Ugualmente avvenne in Giappone ed era già avvenuto, come è noto, nella Francia di Colbert. Anche i Borboni nel Regno delle due Sicilie avevano protetto decisamente l’industria meridionale con alti dazi doganali che crollarono con l’Unità d’Italia.

Ma, oggi, tutto questo è privo di senso. Oppure l’avrebbe ma in un’ottica di rovesciamento delle basi su cui si regge l’egemonia Usa, un paese che ha un deficit permanente di bilancia commerciale di circa 700 miliardi di dollari l’anno che compensa con flussi di capitali che finiscono nella Borsa di Wall Street o nel mercato immobiliare. Insomma, non puoi far decrescere l’economia reale e gli scambi internazionali mentre mantieni aperti gli enormi flussi finanziari che sono arrivati a rappresentare oltre 12 volte il Pil mondiale! È una contraddizione esplosiva del sistema dell’economia mondo che Trump più o meno inconsapevolmente sta facendo scoppiare.