«We are black, we are beautiful, we are proud» urla il Reverendo Jesse Jackson durante lo svolgimento dell’Harlem Cultural Festival a Mount Morris Park (ora Marcus Garvey Park), a Harlem, New York, una serie di concerti che andarono in scena dal 29 giugno al 24 agosto del 1969. Un festival che, svoltosi in contemporanea al ben più rinomato, famoso e storicizzato Woodstock, venne rinominato, sbrigativamente e superficialmente, «Black Woodstock». Parteciparono circa 300mila persone al cospetto di nomi come Stevie Wonder, Nina Simone, B.B. King, Sly & The Family Stone, Chuck Jackson, Abbey Lincoln & Max Roach, The 5th Dimension, Gladys Knight & The Pips, Mahalia Jackson, Chambers Brothers e tanti altri, presentati da Tony Lawrence. Il tutto venne accuratamente filmato e i nastri archiviati in attesa di un produttore che ne facesse buon uso. Ma il materiale è stato a lungo (mezzo secolo…) «dimenticato», abbandonato, ogni tentativo di farne un film rifiutato. Ahmir «Questlove» Thompson (membro dei The Roots) è riuscito alla fine a mettervi mano e a ricavarne un documento spettacolare, realizzando probabilmente il miglior film musicale di sempre, Summer of Soul (or when the revolution could be not televised), il cui titolo, che riecheggia Gil Scott-Heron, riassume alla perfezione contenuto e vicissitudini della pellicola. A esibizioni mozzafiato (un incredibile Stevie Wonder che si lancia anche in un funambolico solo di batteria, Nina Simone, catartica, solenne, spietata, Sly & The Family Stone che confermano di essere stati uno dei migliori act della fine dei Sessanta, Gladys Knight & The Pips con una versione unica di I Heard It Through the Grapevine e quel saluto a pugno chiuso, ballando, Mavis Staple che duetta con Mahalia Jackson in un gospel da brividi, David Ruffin che incanta con My Girl, Ray Barreto e Mongo Santamaria che portano il latin sound sul palco, mentre Max Roach porta il jazz e Mahalia Jackson lo spiritual) si uniscono interventi di spessore socio politico, interviste alle persone e agli spettatori, immagini della New York dell’epoca.

PAROLE CHIARE
Il reverendo Jesse Jackson parla alla folla, usa parole chiare, dure, incisive, sui diritti degli afroamericani. Gli artisti sono sempre elegantissimi, con look impeccabili, ricercati e raffinati. Uno dei principali protagonisti è però il pubblico, quasi totalmente nero e locale. Elegante, composto, sorridente, partecipe, consapevole. Che fossero membri dei Black Panther o coppie di anziani, famiglie della borghesia nera più agiata, bambini che giocano, giovani di varia estrazione sociale, tutti sfoggiano estetiche esuberanti e raffinatissime, pulite, essenziali, fresche. Ridono e si divertono. La gente è coinvolta ma rispettosa, non si accalca, applaude, pensa, riflette, ha sguardi e sorrisi solari. È una festa. Immagini antitetiche al contemporaneo Woodstock, tra giovani persi in un utopico edonismo escapista, droghe, fango e finto ribellismo. Un vuoto che, alla luce, di quanto si è poi verificato, appare oggi ancora più sconsolatamente evidente.
Ad Harlem c’era invece consapevolezza, sguardo al futuro, necessità di cambiamento. Uno dei momenti topici che riassume la divergenza tra il significato di Woodstock e dell’Harlem Festival, è quando Sly Stone alza il pugno gridando il refrain di I Want to Take You Higher: «Higher!». Il pubblico nero di Harlem risponde con il pugno, «Higher!» simboleggiando la speranza di riuscire a innalzarsi dalla precarietà e dalla diseguaglianza. Quando Sly lo urla a Woodstock la platea bianca lo prende come invito a «volare alto», grazie alle droghe. Stessi giorni, stessi luoghi, più o meno.
Forse c’è un motivo di fondo per cui per tanto tempo è stato in qualche modo snobbato il contenuto culturalmente eversivo di questi filmati. Gli afroamericani che dal 1964, proprio da Harlem, avevano incominciato devastanti e sanguinose rivolte per acquisire diritti ed equità sociale, si mostrano in queste immagini molto più «civili», rispettosi e avanti rispetto a chi, nello stesso momento, mandava a morire migliaia dei suoi giovani in Vietnam o reprimeva le più che legittime istanze di parità. Lo stesso regista Questlove sintetizza bene il concetto: «Non volevo confrontare e contrastare Woodstock, ma è stato solo facendo questo film che ho pensato: Ohhh, ho capito. Woodstock in sé non è stato l’evento che ha cambiato la vita. L’evento che ha cambiato la vita è stato il film di Woodstock. Ciò che ha reso grande Woodstock è stato il fatto che ci è stato detto che Woodstock era fantastico». Forse sarebbe stato lo stesso con il «Black Woodstock» se avessimo potuto vederlo ai tempi.

NELLA CHIESA BATTISTA
Contemporaneamente viene pubblicato per la prima volta un altro film mitizzato e, ancora una volta, tra i migliori mai apparsi sullo schermo in ambito musicale. Amazing Grace, di Sidney Pollack e Alan Elliott, documenta le due serate del 13 e del 14 gennaio 1972 in cui Aretha Franklin, artista di ormai enorme successo, tornò a cantare nella chiesa battista del New Temple Missionary di Los Angeles, dove aveva esordito con le sorelle, sotto la guida del padre, C.L. Franklin. Ad accompagnarla il Reverendo James Cleveland con il Southern California Community Choir e la sua band, con eccellenze come Bernard Purdie alla batteria, Chuck Raney al basso, Cornell Dupree alla chitarra, tra gli altri.
L’album ricavato dal concerto, Amazing Grace, venderà due milioni di copie diventando il disco gospel di maggior successo di sempre. Insoddisfatta dalla resa delle riprese e da problemi tecnici (solo recentemente sistemati con le nuove tecnologie) Aretha impedì l’uscita del film. Solo dopo la sua morte, nell’agosto 2018, gli eredi hanno concesso il permesso. Le telecamere riprendono il concerto, diviso in due serate, ma soprattutto il pubblico, i musicisti, restituendo un’atmosfera incredibile. A partire dall’estetica dell’epoca, proseguendo con sporadiche riprese a Mick Jagger e Charlie Watts, spettatori nella seconda serata, suggellando momenti di pura estasi mistica, in cui cadono coristi, James Cleveland, la stessa Aretha, componenti del pubblico, posseduti, in trance, mentre il sudore solca il volto dei protagonisti.
L’esecuzione di Amazing Grace è qualcosa che ci porta nell’irrazionale, nel divino, nel sopranaturale, Old Landmark travolge, You’ll Never Walk Alone toglie il fiato. I colori, il montaggio (diretto, grezzo, immediato), il contenuto artistico e culturale fanno il resto. Anche in questo caso l’elemento principale che traspare è l’adesione unanime del pubblico a un rito collettivo, inclusivo, concreto e reale, in cui religione, spiritualità, musica, superlativa tecnica esecutiva, arrangiamenti, significato dei testi, si mischiano insieme e creano un concime culturale che nutre teste, cuori e anime. I due film sono, artisticamente e da un punto di vista documentaristico, di portata epocale. Paradossalmente ancora di più considerandoli, nell’ottica attuale, come testimonianza a posteriori di un’ennesima truffa e furto nei confronti dei diritti degli afroamericani, deprivati, più o meno consapevolmente, del conforto di una visione reale di quello che veramente era la loro cultura ed essenza, antitetica a una narrazione giornalisticamente «ufficiale», «bianca», che raccontava un’altra realtà. Solo parzialmente, in modo superficiale e approssimativo, corrispondente alla verità.