Harlan, Kentucky, Stati Uniti, è una città che c’è e una città che non c’è: tutte e due, a loro modo, sono luoghi perduti. Harlan che c’è si faticherebbe a chiamarla città, un borgo di 1745 persone (erano 2100 dieci anni prima; la contea di Harlan ne ha 29mila, ed erano 70mila a fine anni ’30) in un angolo dei colli minerari degli Appalachi. Un tempo ci arrivavano i Greyhound e i treni, portando immigrati e trascinando via carbone; oggi, come quasi tutte le città di questa parte degli Stati Uniti, non è raggiungibile con nessuna forma di trasporto pubblico.
Harlan che non c’è sta un po’ dappertutto, nella memoria e nell’immaginario. È la «Bloody Harlan», la città insanguinata, sanguinosa, sanguinaria delle grandi lotte sindacali degli anni ’30, del memorabile documentario di Barbara Kopple, Harlan County U.S.A., Oscar nel 1977, su un altro epico sciopero minerario. Da qui venivano Aunt Molly Jackson («i padroni cavalcano i loro cavalli bianchi e noi stiamo nel fango, la loro bandiera è il bianco rosso e blu e la nostra è rossa di sangue»), Sara Ogan Gunning («che cosa possiamo fare contro questi uomini potenti? Te lo dico io, signor capitalista: possiamo lottare, lottare, lottare»), di Jim Garland («sprofondiamo questo sistema capitalistico negli abissi più neri dell’inferno»).

È LA CITTÀ-MITO della sinistra, raccontata da Theodore Dreiser, Sherwood Anderson, John Dos Passos, a cui inconsapevolmente rendeva omaggio Occupy Wall Street adottando e riscrivendo (con Ani DiFranco) una canzone composta a Harlan da Florence Reece negli anni ’30: «Dicono che a Harlan County non si può essere neutrali, o stai col sindacato o sei un sicario dello sceriffo – which side are you on? Da che parte stai?».
Questa Harlan immateriale non sa nemmeno di esistere. Florence Reece, Jim Garland, Molly Jackson, Sara Ogan, messi sulla lista nera di padroni e sceriffi, dovettero andarsene da Harlan e non ci tornarono per decenni. Quando George Ella Lyon, nata a Harlan, poeta laureata del Kentucky, voleva andare a New York per fare la folk singer, scoprì che le canzoni che cantavano Pete Seeger, Phil Ochs, Joan Baez venivano proprio dal suo natio borgo selvaggio. Lei non le aveva mai sentite. Come scrive uno storico locale, una «amnesia collettiva volontaria» cancella ogni coscienza di questa storia.

HARLAN TOWN sono poche strade, vetrine vuote e finestre sbarrate, compreso lo storico diner dove andavo a fare le interviste, come nella hometown di Bruce Springsteen, un avvocato e una chiesa ogni cento metri e un’incrostazione di fast food tutto intorno. Il centro commerciale abbandonato fuori paese che serve solo alle evoluzioni in macchina dei ragazzi nel suo sterminato parcheggio. L’alternativa è il parcheggio di Walmart, megacentro commerciale sotto costo e antisindacato che è la causa delle vetrine vuote in centro e l’unico posto con l’aria condizionata dove incontrarsi d’estate.

Nel frattempo, una boccata d’aria all’economia viene dai sentieri di montagna che portavano alle miniere abbandonate, diventati il terreno ideale per le avventure dei fuoristrada che da tutta l’America in stagione riempiono i motel e comprano i souvenir coi pezzi di carbone e la scritta «Bloody Harlan». Harlan è nel Guinness dei primati per il più lungo corteo di fuoristrada nella storia dell’umanità.
Intanto, quella immateriale aleggia fuori dei suoi confini, come figura virtuale di concretezza montanara, virile resistenza e coraggio davanti alle avversità e ai pericoli («sono di Harlan, non sono il tipo che si lamenta e piagnucola», Steve Earle), capace di affrontare il pericolo senza batter ciglio come il protagonista dei romanzi noir di

Elmore Leonard e della serie televisiva che ne è stata tratta, Justified. Né Steve Earle né Elmore Leonard sono mai stati a Harlan, e Justified è filmato in Canada.
In quello che rimane di Harlan materiale, di sindacato e di resistenza non resta quasi niente. Le sparute miniere che ancora lavorano sono a cielo aperto, con pochissima forza lavoro e moltissimi danni ambientali – ma in tutte le vetrine ancora aperte campeggiano cartelli, «friends of coal», «coal keeps the lights burning» – amici del carbone, il carbone accende le luci.

DA SEMPRE, L’INDUSTRIA mineraria ha impedito ogni forma di diversificazione dell’economia. Anche oggi a Harlan è difficile essere neutrali: o sei disoccupato o ti affidi ai padroni del carbone e voti per Trump, sperando nel miracolo di un resurrezione delle miniere.
La città vissuta e quella immaginata convergono in un’immagine: un luogo da cui emigrare («Are you really leaving Harlan now», te ne stai proprio andando da Harlan?), da rimpiangere («Going back to Harlan», Kate e Anne McGarrigle), e da cui comunque non uscirai mai da vivo («You’ll never leave Harlan alive», ancora Darrell Scott: una stretta valle «dove il sole non sorge fino alle dieci della mattina e tramonta alle tre del pomeriggio e ti riempi il bicchiere di qualcosa di amaro e passi la vita a sognare di andartene…» )

Qualcosa di molto più amaro è arrivato a Harlan da quasi vent’anni. Si chiama Oxy Contin ed è un potente antidolorifico che le aziende farmaceutiche hanno promosso aggressivamente in questa regione piena di gente che soffre perché si è spezzata le ossa in miniera, si è riempita i polmoni di carbone, si è presa il cancro anche solo respirando l’aria impolverata e bevendo l’acqua contaminata («è inutile che strofini quei piatti», mi diceva la mia ospite, «il giallo dello zolfo e il nero del ferro stanno già nell’acqua»).
Preso in capsule, l’Oxy (come altri medicinali analoghi) ha un lento rilascio che attenua il dolore, ma può dare assuefazione a lungo termine. Spezzato e iniettato in vena dà un’assuefazione immediata e definitiva. Dottori corrotti prescrivono pillole a pioggia, ragazzi disperati le rubano ai nonni e svaligiano farmacie e finiscono in prigione. «Il mio era un matrimonio quasi perfetto. Poi lui si fece male in miniera, ebbe un’operazione alla schiena e lo misero a Oxy Contin. E a ottobre 2000 il suo amico lo uccise per rubargli le capsule».

Harlan vissuta cerca di reagire con la sola strategia possibile: reimmaginandosi. Nel 2002, la fondazione Rockefeller ha finanziato un progetto concepito e coordinato da Robert Gipe, un giovane scrittore e organizzatore culturale che insegna nel locale college: «usare le arti per affrontare i problemi della comunità». «Uno dei nostri punti di forza era la capacità di raccontare storie, la creatività – ha spiegato Gipe – e il sistema educativo aveva marginalizzato il bisogno che tutti hanno di esprimersi e di essere creativi: abbiamo pensato di partire da lì».

DUECENTO PERSONE di tutte le età e colori hanno raccontato le proprie storie e le hanno messe in scena, cantate ballate, rivissute in un progetto di teatro di massa che di anno in anno ha raccontato i disastri ambientali, l’invasione della droga, le morti in miniera, ma anche la vita di tutti i giorni, gli affetti, la famiglia, le gioie.
Hanno mandato i ragazzi a fotografare il peggio e il meglio di dove vivono, e hanno riprodotto le fotografie in un immenso murale di ceramica. «Eravamo convinti che se avessimo fatto qualcosa con le arti avremmo potuto volare al di sotto del radar del potere», ha continuato Gipe. Ci sono riusciti finora; ma in questo lavoro hanno ricostruito la stima di sé senza la quale non potranno neanche immaginare di avere dei diritti.

Nel luglio 2007 ero agli antipodi di Harlan: Christopher Street, nel Village, a New York. Ho sentito una musica che usciva da una chiesa, sono entrato, e un gruppo di attori di tutti i colori e tutti i generi stava celebrando il mese del Gay Pride e ricordando la strage di Orlando, 49 persone uccise per omofobia il 12 giugno 2016. Hanno chiuso con un coinvolgente brano gospel, Stand in the Light: «vieni alla luce, fatti vedere per quello che sei, porta la musica e la memoria che hai dentro di te, non nascondiamo quello che siamo dentro di noi». L’autore si chiamava Jordan Smith e, naturalmente, è nato a Harlan.

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5- continua