Dopo le dimissioni presentate due giorni fa dal premier sunnita Saad Hariri, il Libano sembra per la prima volta in due settimane tornare alla normalità. Oggi riaprono le scuole e altrettanto faranno domani le banche. L’esercito ha provveduto a sgomberare quasi tutte le arterie stradali. Restano però i sit-in dei manifestanti nelle piazze a Beirut e in altre città a ricordare le ragioni delle proteste con centinaia di migliaia di libanesi cominciate in nome della lotta alla corruzione, alla disoccupazione, al carovita e al sistema settario che paralizza politica ed economia. Tuttavia le proteste con il passare dei giorni si sono gradualmente inserite nello scontro che va avanti da almeno 15 anni, tra i partiti anti-Siria e anti-Iran del “Fronte 14 Marzo” e quelli vicini a Damasco e Tehran del “Fronte 8 Marzo”. Le stesse dimissioni di Hariri, sostenuto dall’Arabia saudita e gli Stati uniti, vanno viste più nella cornice di questa battaglia politica – alla quale prendono parte dall’esterno i paesi sponsor dei due schieramenti -, che come un esito delle proteste dei libanesi contro il malgoverno.

 

Perciò restano incerti gli scenari politici e istituzionali. Hariri sarebbe pronto a formare un nuovo governo ma vuole solo ministri tecnici. Ufficialmente per attuare le riforme più urgenti ed evitare il collasso economico del Libano, che ha un debito pubblico al 150% del Pil ed è bisognoso di un immediato aiuto finanziario internazionale di oltre 10 miliardi di dollari. Ma più realisticamente per scardinare l’accordo raggiunto tre anni fa alle condizioni del suo principale avversario, il movimento sciita Hezbollah, che dopo un lunghissimo stallo politico portò il 31 ottobre del 2016 all’elezione di Michel Aoun a capo dello stato, oltre alla sua nomina a primo ministro. Oggi, a tre anni esatti da quella data, è atteso un importante discorso alla nazione di Aoun, un cristiano maronita leader della Corrente dei Patrioti Liberi.

 

Hezbollah e l’altro partito sciita, Amal, guardano con crescente diffidenza all’evoluzione politica avuta dalle proteste in strada e alla mossa di Hariri. Due giorni fa militanti di queste due formazioni in più occasioni hanno aggredito i manifestanti e abbattuto alcuni accampamenti di tende (già ricostruiti) costringendo l’Esercito ad intervenire. Il quotidiano Al Akhbar, vicino alla sinistra e ad Hezbollah, ieri ha definito la decisione di Hariri «il risultato delle pressioni dei golpisti internazionali che si muovono all’ombra delle proteste di strada contro la coalizione di governo». Non è passato inosservato inoltre che, qualche ora dopo le dimissioni di Hariri e il crollo dell’accordo politico del 2016, Israele abbia chiesto ai paesi occidentali di condizionare l’aiuto finanziario al Libano allo stop dei missili di precisione di cui si starebbe dotando Hezbollah. Il messaggio, riferiva ieri Times of Israel, è stato convogliato in «colloqui discreti» a Stati Uniti ed Europa