Beirut allagata e paralizzata dalla pioggia. Strade trasformate in fiumi nel centro così come nei quartieri più degradati della capitale. Allagato in parte anche l’aeroporto internazionale Rafiq Hariri. A ciò si sono aggiunti gli abituali blackout dell’energia elettrica. Il maltempo ha messo a nudo la fragilità delle infrastrutture civili del paese, uno dei disastri nazionali che lo scorso 17 ottobre e nelle settimane successive hanno spinto centinaia di migliaia di libanesi a protestare contro il governo, la corruzione, la disoccupazione, il carovita e il settarismo politico che contribuisce a paralizzare l’economia e la gestione dei servizi essenziali. Proteste che sino ad oggi non hanno generato alcun cambiamento ma solo accresciuto la tensione tra le forze politiche contrapposte. E ora i libanesi assisteranno al probabile ritorno sulla poltrona di primo ministro del leader sunnita Saad Hariri, sei settimane dopo le sue dimissioni sotto l’urto delle manifestazioni popolari.

 

Il nome di Hariri è riemerso domenica, quando l’imprenditore Samir Khatib ha ritirato la sua candidatura a nuovo premier. Il Gran Mufti, Sheikh Abdul Latif Derian, il più importante religioso sunnita in Libano, si è espresso a sostegno di Hariri bruciando così il nome di Khatib, un uomo d’affari che si era detto pronto a rimettere in ordine i conti del Libano, un piccolo stato ma tra più indebitati al mondo (83 miliardi di dollari) e con un deficit pubblico all’150% del Pil. Domenica sera Hariri ha incontrato Khatib per dirgli che l’unico giocatore nel campo sunnita resta lui. Quindi sono state rinviate di una settimana le consultazioni, previste ieri, tra il capo dello stato Aoun e i partiti politici sulla designazione del nuovo primo ministro.

 

Non occorre essere degli esperti di politica libanese per intuire che lo stop a Khatib, pronunciato dalla massima autorità religiosa sunnita, è frutto anche di pressioni dall’estero, con ogni probabilità dell’Arabia saudita che pur avendo perduto in parte la fiducia in Hariri – agli occhi di Riyadh troppo arrendevole nei confronti del “nemico”, il movimento sciita Hezbollah alleato dell’Iran – non ha ancora trovato un sostituto valido. E lo stesso vale per la Francia, altro punto di riferimento di Hariri, che domani si appresta ad aprire una nuova conferenza di donatori per il Libano. L’anno scorso a Parigi furono decisi aiuti al paese dei cedri per 11 miliardi, condizionati però all’attuazione di un piano di riforme economiche radicali. Riforme non realizzate o solo abbozzate con riflessi negativi che si sono abbattuti sulle categorie sociali più deboli gettandole nella disperazione alla base delle proteste di queste settimane.

 

Hariri in nome dell’efficienza e delle riforme insisterà per la formazione di un governo di tecnici e non di politici, uno stratagemma volto anche, se non soprattutto, a tenere fuori dall’esecutivo i partiti sciiti Hezbollah e Amal che, ovviamente, non sono d’accordo. Nel frattempo il paese sprofonda: le banche attuano rigidi controlli sui capitali, i dollari scarseggiano e la lira libanese ha perso un terzo del suo valore al mercato nero. L’emorragia di posti di lavoro è incessante. Solo nell’ultima settimana oltre 60 aziende hanno annunciato il licenziamento di tutti i dipendenti.