Che cosa si ascolta quando si ascolta la musica? Una domanda forse ingenua, oziosa, retorica. Insomma, con ogni probabilità, una proverbiale unanswered question. Eppure è un interrogativo che ci poniamo, forse senza saperlo, ogni qual volta ci accingiamo, più o meno volontariamente, all’esercizio dell’ascolto. Se ascoltiamo una sinfonia di Mahler o una cantata sacra di Bach abbiamo infatti la percezione olistica di un oggetto sonoro che si muove nel tempo (Edgard Varèse diceva anche nello spazio…), ma in realtà quell’oggetto non è un monolite, bensì un prisma dotato di tante facce quante sono le dimensioni del suono: la melodia, l’armonia, il tempo, il ritmo, il metro, il colore, la dinamica l’agogica, lo spessore, la densità, ecc. Un oggetto dunque che ha bisogno, per essere compreso nella sua complessità, di un certo grado di acuità sonora, il correlato di quella acuità visiva di cui parla Oliver Sacks ne L’isola dei senza colore. La cui peculiarità, però, per quanto ovvio possa sembrare, è quella di muoversi lungo la linea inarrestabile del tempo.

Questo doppio statuto dell’ascolto musicale, in cui tempo e percezione si oppongono e si integrano tra loro, ha determinato la duplicità delle innumerevoli teorie dell’ascolto che si sono sviluppate, in particolare, nel Novecento. Su una riva del fiume giacciono le teorie secondo le quali qualsiasi atto di conoscenza di un oggetto musicale è inscindibile dalla sua dimensione strettamente temporale. Theodor W. Adorno sostiene ad esempio che la «forma musicale» è solo ciò che si sviluppa nel corso del tempo, Henri Bergson è persuaso che ogni suono presente contenga inevitabilmente il suono passato e il suono futuro, mentre per Edmund Husserl, a dirla in breve, ogni oggetto sonoro altro non è che un oggetto temporale. Sull’altra riva dello stesso fiume abitano le teorie, quasi tutte di matrice psicologica, secondo le quali, al contrario, la pratica dell’ascolto dipende dallo status psico-percettivo in cui si trova il soggetto udiente: il possesso dei diversi tipi di memoria, la capacità di separare gli eventi primari da quelli secondari, l’attitudine sinestesica a «vedere» i suoni, eccetera.

Né l’una, né l’altra strada, però, sembrano aiutarci a rispondere alla domanda inziale. Forse perché la direzione da prendere è un’altra. Ad esempio quella della fertile, classica, a volte abusata idea di soundscape coniata negli anni Settanta da Murray Schafer. Supponiamo infatti di osservare un paesaggio in movimento dal finestrino di un treno: grazie alla nostra acuità visiva siamo in grado di distinguere l’insieme (ad esempio una collina) e simultaneamente i suoi infiniti dettagli (il colore di un albero, una siepe, il disegno di un rilievo). Proviamo adesso ad ascoltare un oggetto sonoro (la sinfonia di Mahler, la cantata di Bach) come se fosse, anch’esso, un paesaggio in movimento. E facciamolo scorrere davanti a noi. Ci accorgiamo di essere capaci, con un minimo di concentrazione, senza bisogno di sapere leggere la musica, ma solo ricorrendo alla nostra acuità uditiva, di distinguere, oltre all’insieme, una infinita quantità di particolari essenziali: il timbro di uno strumento, il tracciato di una melodia, la velocità e la lentezza, il fortissimo e il pianissimo, il legato o lo staccato di una frase, la densità e lo spessore di una massa sonora, il crescendo e il diminuendo. Un mondo di suoni.

Quando ascoltiamo la musica, dunque, noi non ascoltiamo in realtà «la musica», bensì un paesaggio sonoro straordinariamente complesso, fatto di un tutto e delle sue parti. Un oggetto che si svela alla nostra percezione con tanta più ricchezza quanto più siamo disposti ad accogliere, attraverso la finezza dell’udito, ognuna delle sue componenti. Ci immergiamo insomma in un universo sonoro in costante movimento che siamo in grado di comprendere soltanto se riusciamo a scomporlo, istantaneamente, nelle sue molteplici dimensioni. Happy new ears – diceva John Cage all’inizio di ogni nuovo anno. Un augurio che va al di la del tempo.