Dopo cinquant’anni dal ritiro dell’opera da parte del suo stesso autore, nel 2012 veniva pubblicata la prima versione in lingua inglese dell’ultimo scritto del grande giurista praghese Hans Kelsen, previa, sofferta, autorizzazione dell’Istituto Hans Kelsen di Vienna con il titolo Secular religion ( Springer-Verlag, Vienna). La tempestiva traduzione italiana (Religione secolare, Raffaello Cortina Editore, pp. 392, euro 36) conserva il lungo ed esplicativo sottotitolo della prima edizione: Una polemica contro l’errata interpretazione della filosofia sociale, della scienza e della politica moderne come «nuove religioni». I tanti, appassionati, lettori italiani del giurista che forse più di ogni altro ha influenzato la teoria del diritto del Novecento ed anche le sue istituzioni e che continua ad essere un punto di riferimento imprescindibile per gli studi sulla democrazia e sui sistemi giuridici rimarranno però piuttosto delusi per questo corposo volume che non tratta nessuno dei temi che hanno reso celebre l’Autore. Si tratta in sostanza di un lavoro critico-ricostruttivo di una corrente di pensiero del primo Novecento, variegata al suo interno ed in genere di ispirazione cristiana, che – avverte lo stesso Kelsen nella introduzione – «tende a vedere nelle dottrine filosofiche e sociologiche e nei movimenti politici più caratteristici del nostro tempo, alcune analogie con le speculazioni teologiche e con i movimenti religiosi della tarda antichità e del medioevo, specialmente con il millenarismo messianico, con la Gnosi, l’interpretazione della storia proposta da Gioacchino da Fiore». Si tratterebbe per questo orientamento di «religioni secolari» che, nonostante la loro ispirazione rigorosamente intramondana e la loro dichiarata tendenza antiteologica, ripropongono temi escatologici in una veste laica e talvolta addirittura atea.

Cadono nel gran contenitore di una pretesa «secolarizzazione del modello escatologico giudaico-cristiano» ( Karl Löwith): Hobbes, gli illuministi, Hume, Saint-Simon, Proudhon, Comte, naturalmente Marx, persino Nietzsche, nonché la scienza moderna e la stessa politica moderna che non sarebbero riuscite in realtà a liberarsi davvero di motivi teologici, a cominciare da quella teoria del progresso che rappresenta una mondanizzazione dei motivi della redenzione cristiana.

Germi del totalitarismo

kelsen
Il volume kelseniano si presenta come uno sviluppo decennale di una lunghissima recensione all’opera del 1952 del suo allievo ed assistente Eric Voegelin The New science of Politics. An introduction nella quale – ricorda Kelsen – si paventa il pericolo del «relativismo positivistico». Allo stesso tempo, nel volume del suo allievo è messo in evidenzia il fatto che c’è una tendenza che punta a restituire il dominio della teologia e della speculazione metafisica sulla scienza politica, individuando nella Gnosi e nell’opera di Gioacchino da Fiore i primi germi eretici dei successivi moderni movimenti totalitari che avrebbero reciso il nesso con un ordine trascendentale, con la speculazione metafisica e con la stessa mediazione delle Chiese per rivendicare un futuro di salvezza terrena. L’originaria tensione messianica sarebbe trapassata in dottrine che si presentano come laiche o comunque libere dai condizionamenti teologici che, essendosi liberate dagli ancoraggi delle vera fede, assumono inevitabilmente tratti totalitari, intolleranti e spesso violenti.

Il termine «religioni secolari» in realtà fu coniato per primo da Raymond Aron per «quelle dottrine che nello spirito dei nostri contemporanei prendono il posto della fede che è svanita, e che trasferiscono in questo mondo, in un futuro remoto, la salvezza del genere umano, nella forma di un ordine sociale che dovrà essere instaurato». Ora all’iniziale confutazione di Voegelin viene aggiunta, nella stesura tormentata del volume di Kelsen che cambia più volte anche il titolo, l’analisi critica di autori che ribadiscono la permanenza di istanze teologiche in dottrine che si vorrebbero scientifiche. Si va dai più noti ed influenti, come Karl Löwith, Erst Cassirer, il già citato Aron o Jacob Taubes sino a pensatori ormai dimenticati come Antonin Gilbert Sertillages, Fritz Gerlich, Craine Brinton. In una nota Kelsen ricorda che anche per Carl Schmitt «tutti i concetti più pregnanti della moderna teoria dello Stato sono concetti teologici secolarizzati». Ne scaturisce uno strano libro composto in sostanza da lunghissime recensioni di quest’ultimi autori seguiti da sintetiche considerazioni di Kelsen che si limita a mostrare come non esista pensiero religioso senza un ancoraggio trascendente ed ultramondano e che quindi le teorie criticate ( in primis il marxismo) hanno tutte le carte in regola per rivendicare una liberazione metodica dalla teologia. Dopo essere giunto, dopo revisioni profonde, nel 1962 ad una forma definitiva ormai in bozza Kelsen ritirò il libro pagando una salata penale all’editore. Rimane il mistero su cosa lo abbia mosso ad una decisione così drastica.
Il biografo ed amico di Kelsen Rudolf Métall (cui era dedicato il volume) riferisce di dubbi teorici dell’autore; nella Prefazione si accenna all’ipotesi che sia stato lo stesso Voegelin a consigliare Kelsen sui pericoli che correva a pubblicare un testo di strenua difesa del marxismo in anni di maccartismo (anche se nel 1962 il clima era indubbiamente cambiato). L’intento del volume è certamente anche quello di un’autodifesa; il tentativo di rivendicare la coerenza e lo spazio della teoria pura del diritto (la dottrina kelseniana) come scienza sociale, avalutativa e libera da presupposti teologici, senza incorrere nell’accusa di rappresentare, tra i tanti, uno degli ancoraggi «relativistici» che minacciano le democrazie e favoriscono i totalitarismi. La domanda è se questo volume abbia una sua attualità.

Come si accenna nella nota introduttiva di Richard Potz oggi le tesi che reclamano un peso maggiore delle religioni nella vita politica e nella determinazione delle linee di sviluppo della democrazia contemporanea si presentano con argomenti meno radicali di quelli combattuti da Kelsen che vedevano persino nella fede nel metodo scientifico una tarda eresia gnostica. Basterà pensare al grande confronto tra Charles Taylor (autore del monumentale L’ età secolare, Feltrinelli, 2009) ed un campione del laicismo come Jürgen Habermas (il cui Tra scienza e fede, Laterza, 2006 è in larga parte dedicato alla religione nella sfera pubblica).

La premessa da cui parte oggi Taylor è la compiuta secolarizzazione, la definitiva fondazione su basi laiche delle istituzioni della democrazia contemporanea. Quella di Taylor si presenta, quindi, come una offerta di aiuto, un contributo alla stabilizzazione delle società contemporanee nelle quali, comunque, il fenomeno religioso non si è, contrariamente a quanto da molti previsto, estinto, ma costituisce ancora una ineliminabile differenza che andrebbe, invece messa a valore democratico. Le risorse partecipative dei cittadini che hanno una fede religiosa (al pari di quelli che ad esempio sono atei o agnostici) non andrebbero neutralizzate in un discorso pubblico talmente neutrale ed astratto da «lobotomizzare» le convinzioni più profonde delle persone, ma invece attivate per trovare un punto di esplicita mediazione che non può che giovare all’integrazione (ed all’eguaglianza effettiva) di tutti.

Imperativi sistemici

Da parte di più studiosi è stato osservato che la replica habermasiana alle tesi di Taylor forse avrebbe concesso troppo a questa visione di una società post-secolare in cui le opinioni dei credenti possono trovare un loro spazio nella sfera pubblica pur dovendo ricercare una «traduzione «dei loro argomenti in un lessico accessibile ed accettabile da parte di tutti, fedeli o laici (su questo punto il rinvio è al numero di Micromega almanacco di Filosofia n. 1/2013 con interventi dello stesso Habermas e di Taylor). Habermas avrebbe finito con l’ammettere che le risorse morali e comunicative dello stato secolarizzato sono troppo deboli per reggere la sfida che alle società democratiche portano i nuovi imperativi sistemici indotti dal processo di globalizzazione e in questa prospettiva le religioni (almeno alcune) sarebbero alla fine un puntello contro lo sfaldamento della coesione sociale. Di qui una certa insistenza ricostruttiva su quanto le religioni abbiano, in realtà, veicolato norme morali, contribuendo alla loro istituzionalizzazione. Recentemente Alessandro Ferrara nel suo Democratic Horizon ( Cambridge University Press) ha proposto l’utilizzazione dell’ultimo volume di John Rawsl sul Liberalismo politico e del costituzionalismo alla Bruce Ackerman per cercare di definire questo rinnovato apporto delle differenze religiose nel progetto di una democrazia più inclusiva.

Ci sembra conclusivamente che il volume di Kelsen attesti, comunque, ai lettori di oggi, in un contesto discorsivo in cui si è rinunciato ad imputare alla secolarizzazione di aver generato indirettamente le catastrofi del 900, un certo rigore nel voler tenere separati le scienze sociali e la sfera pubblica (lo spazio della deliberazione politica) dalle crescenti invasioni delle suggestioni di tipo religioso; insomma una bella testimonianza, oggi rara (nell’epoca in cui neppure il problema dell’austerity o della conseguente, crescente, povertà in Europa può essere nemmeno accennato senza chiamare necessariamente in causa le opinioni dell’attuale reggente il Vaticano) di militanza metodologica laica, da non smarrire.