Dopo che l’attentato organizzato dal gruppo rivoluzionario di Narodnaja volja uccise lo zar Alessandro II, nel 1881, lo storico Dmitrij Ilovajskij espresse l’opinione secondo la quale il movimento rivoluzionario in Russia sarebbe stato un cieco strumento nelle mani di polacchi e ebrei. Si ponevano così le basi per quel mito che si sviluppò ampiamente nei decenni successivi e divenne noto come «bolscevismo giudaico»: proprio a questo fenomeno lo storico statunitense Paul Hanebrink dedica la sua corposa monografia, titolata Uno spettro si aggira per l’Europa Il mito del bolscevismo giudaico (traduzione di Dario Ferrari e Sarah Malfatti, Einaudi, pp. XX-328, € 30,00).

Indietro alle tesi di Heifetz
Mentre si concentra sulla questione così come si presenta nell’Europa occidentale, centrale e balcanica, con interessanti excursus sulle reincarnazioni del mito nella vita politica europea di oggi, Hanebrink dà tuttavia per scontata la genesi di quella rivoluzione mondiale guidata dagli ebrei per assoggettare il mondo, che si consumò nella Russia presovietica e poi nell’ambito dell’emigrazione bianca successiva alla rivoluzione del 1917. Dunque, non solo evita di approfondirla, ma sono assai scarni, se non inconsistenti, i rimandi bibliografici all’ampia letteratura in lingua russa e polacca, manca il riferimento al saggio di Solzenicyn 200 anni insieme, e mancano altri interessanti contributi sulla storia dell’antisemitismo in ambito slavo orientale, come il fondamentale studio di Cesare De Michelis sull’origine e la storia dei tristemente noti Protocolli dei Savi di Sion.

Hanebrink parte dalle fobie antibolsceviche di Eugenio Pacelli, nunzio apostolico a Monaco durante il moto rivoluzionario guidato da Max Levien, per offrire una trattazione comunque ampia e approfondita del rapporto tra bolscevismo e ebraismo in Germania, Ungheria, Romania e nell’Europa occidentale, fondandosi sulla convinzione che tutto discese dall’«abitudine inveterata di associare gli ebrei all’eresia», e dalla convinzione dell’esistenza di un complotto ebraico internazionale, che riproponeva «in forma secolarizzata» le antiche paure del fanatismo anti-ebraico.

La ricostruzione dei pogrom nelle zone di residenza degli ebrei tra grande guerra e rivoluzione bolscevica permette all’autore americano di ricollegarsi alla tesi di Elias Heifetz, secondo il quale le violenze antisemite avrebbero risposto a quella logica politica che portò all’affermarsi del mito del bolscevismo giudaico e da lì dell’ideologia hitleriana a sostegno dell’olocausto. Hanebrink ricostruisce tutta la catena delle violenze, tra impero austro-ungarico, Polonia, Romania e Ucraina, che precedono «la redifinizione nazista». Ricorda, tra le pagine del suo saggio, gli scambi di opinione tra Hitler e gli esuli russi, e le tesi di Alfred Rosenberg, teorico nazista della razza originario proprio del Baltico russo. E passa dunque a una disamina attenta e articolata dell’ideologia razzista del Terzo Reich, e ai complessi e intricati eventi legati al patto Ribbentrop-Molotov, fino all’Operazione Barbarossa e all’idea che il Volk germanico dovesse liberare il mondo dal pericolo asiatico-giudaico.

Proprio lo scontro con il bolscevismo (si pensi all’ammonimento di Hitler sulla «crudeltà asiatica») portò alle estreme conseguenze l’utilizzo del mito trattato da Hanebrink nella realizzazione dell’efferato piano della soluzione finale. In realtà, l’equazione «ebreo-bolscevico», che non funzionava nei numeri e nelle percentuali prima della rivoluzione russa e, in parte, anche nel periodo sovietico, tanto meno funzionava durante la grande guerra patriottica. Hanebrink avrebbe, per la verità, potuto dedicare una trattazione più ampia alla questione della componente ebraica nel Pcus e nella gestione del Gulag, così come manca di approfondire il tema «ebraismo e comunismo» nell’Italia di Mussolini, e non affronta – in altra prospettiva – la figura di Zhabotinski e del revisionismo sionista.

Verso la deriva del pamphlet
Malgrado la sconfitta del nazismo e del fascismo, il mito del bolscevismo giudaico sopravvisse e si sviluppò ulteriormente, incarnandosi prima nelle tesi degli storici revisionisti, poi nelle espressioni più reazionarie e torbide del sovranismo (specie in Francia, Germania e Grecia, ma anche nell’est europeo dopo il crollo del comunismo sovietico). Pur radicate nel passato, le questioni che con grande dovizia di dati e riferimenti Hanebrink mette all’ordine del suo saggio, sono ancora oggi rilevanti nel dibattito sociale e politico dell’Occidente e non solo. Forse, tuttavia, una eccessiva libertà lo guida nella sua attualizzazione del mito in seno al dibattito politico odierno tra globalismo e sovranismo, trasformando in alcuni passaggi il suo saggio storico in una sorta di pamphlet, privo di accertate e condivise risultanze oggettive.