In linguistica li chiamano «falsi amici». Ecco un esempio: il conferimento del Nobel a Peter Handke è stato così motivato: «for an influential work that with linguistic ingenuity has explored the periphery and the specifity of human experience» («per la sua opera influente che, con ingegno linguistico, ha esplorato le periferie e le specificità dell’esperienza umana»). Tutto chiaro? Sì e no: perché quell’ingenuity in inglese rimanda a ingegnosità e non a ingenuità. Le due parole hanno una sorprendente radice comune nel ‘genio’: l’ingenuo è ingegnoso e viceversa. E infatti: ecco l’incipit dell’ultimo romanzo di Peter Handke: «Questa storia è cominciata in uno di quei giorni di mezza estate in cui, camminando a piedi nudi nell’erba, per la prima volta nell’anno, si viene punti da un’ape». Ingenuo o ingegnoso? Entrambi. La ladra di frutta Un semplice viaggio nell’entroterra (Guanda, pp. 427, € 20,00) nuovo romanzo dell’autore austriaco, ottimamente tradotto da Alessandra Iadicicco, è un racconto disarmante in questo panorama dominato dai ‘gialli’ e dai ‘noir’, fatto di una scrittura lirica, intensa e leggera come è la poesia.

Ripercorriamo l’itinerario di Handke: aveva cominciato come enfant terrible, facendo saltare in aria nel ’66 il mitico «Gruppo 47» (quello di Böll, Grass) e scrivendo, sempre nel medesimo anno, una pièce teatrale imbarazzante: Insulti al pubblico, per compiere poi un sorprendente cambiamento radicale. Radicale, perché il percorso di Handke in più di mezzo secolo, costellato di continue scritture, approda a una sorta di escapismo lirico quale supremo diritto dell’uomo a svincolarsi dalle logiche e dalle dinamiche della società amministrata. Il suo cammino va verso un gesto sovversivo, non più urlato come agli inizi; è come se la sua voce, la sua scrittura si dissolvessero nell’ineffabile, dove s’incontrano ancora esseri umani, se non liberi, per lo meno tendenti alla libertà come la ladra di frutta, misteriosa, sfuggente metafora di un sottrarsi alle autostrade della normalità per preferire campi, boschi, villaggi, baracche, sentieri, non battuti, quelli dove trovare ancora qualche frutto, umile, naturale: mirtilli, mele cotogne. Lo scrittore si rivela un maestro nella descrizione dei particolari più minuti, nonché un artista della percezione, che affiora con stile paziente, linguisticamente semplice, con una nostalgia per espressioni antiquate, quasi antiquarie.

Viaggio nell’entroterra
Il testo rispecchia la fatica della scrittura e lo sforzo di infrangere l’inadeguatezza della parola alla ricerca di un significato, sempre inseguito, mai raggiunto, mai rivelato, quale maledizione e destino sublime della modernità, ché il «semplice viaggio nell’entroterra», la «einfache Fahrt ins Landesinnere», costituisce l’estrema variante di quell’archetipico «cammin di nostra vita» con la medesima oscurità, lo stesso smarrimento. In questa angoscia si rivela l’intuizione di un possibile mondo più caldo come reazione alla circostante realtà gelida, frettolosamente inumana.

Il racconto – semmai ciò aiutasse a capire – si svolge nel 2016 in tre giorni. Un racconto ricco di luce: la luce del grande meriggio d’agosto, che si coglie nella lentezza, evitando l’artificialità delle città, del parossistico traffico vacanziero. L’itinerario si dipana dalla «baia di nessuno», ovvero dalla residenza dell’autore, in campagna nei dintorni di Parigi, verso un territorio poco noto e ancor meno visitato: la Piccardia, il dipartimento dell’Oise, l’altopiano del Vaxin. Ci si può immaginare il narratore mentre insegue a piedi nudi la giovane ladra, che oscilla sempre tra un personaggio reale e un fantasma. Non è un gioco facile quello messo in scena da Handke, che si districa abilmente con la sua prosa poetica, incantando per le sue accensioni sublimi, che paiono distaccarsi dalla modernità incerta, insicura per attingere quella patria eterna della poesia romantica.

Il protagonista, l’io narrante, che è in filigrana lo stesso autore, misantropo eppure comunicativo, disegna, con quella sua perizia raffinata nei decenni, la figura elusiva, inafferrabile della «ladra». Come un sogno, la giovane rievoca, con evidenti rimembranze romantiche, i tenui, delicati, onirici personaggi che apparivano a Novalis, a Eichendorff e che rappresentano ancora la più autentica verità della scrittura tedesca, o meglio di lingua tedesca, ché Handke è nato il sei dicembre 1942 a Griffen, in un villaggio in Carinzia, al confine con la Slovenia, dove la maggioranza della popolazione parla sloveno. Questa identità con la lingua della madre – la madrelingua – spiega l’imperdonabile presa di posizione dello scrittore austriaco per la Serbia di Miloševic. Errore immane, come immane è la responsabilità di vari paesi occidentali – a cominciare dalla Germania ai tempi di Kohl e del suo ministro degli esteri Genscher – nella frantumazione della Jugoslavia.

Handke ha avuto più di vent’anni per meditare, per scrivere e trovare ancora una volta quel suo stile insinuante che scorre verso la libertà, irraggiungibile, e ciò spiega la melanconica ironia dei suoi testi. Le grandi camminate – Wanderungen – dei personaggi alludono al Parzival di Wolfram von Eschenbach: un esergo di questo poeta medievale apre il romanzo, che pare alludere a una rinnovata ricerca del Graal nella nostra epoca. Ma il nostro non è tempo di Santo Graal, né delle numerose allusioni mistiche di cui è cosparso il romanzo, e infatti tutto si conclude a sorpresa con una festa in famiglia, molto particolare, anarchica, ribelle, ironica, come chiarisce nel suo discorso il padre: «Noi apolidi, qui ora liberi dallo Stato, ignorati dallo Stato… Noi senza un ruolo, mentre la gente di Stato resta inequivocabilmente nel suo ruolo… Noi illegali e desperados. Che però abbiamo una legge. E avere una legge vuol dire avere un destino. Noi, che stiamo sulle postazioni perdute. (Interruzione: “Lunga vita a chi sta sulle posizioni perdute!”). Auspicio nobile di emarginati».
La ladra di frutta non è un romanzo di protesta, bene inteso, bensì un testo lirico irriducibile alla normalità. Handke lo dichiara «ultimo epos», ossia prodotto della estrema poesia del germanico «viaggio nell’entroterra».

Periferie della Mitteleuropa
Giunti al termine dell’«ultimo epos», si ha l’impressione di aver letto sempre il medesimo racconto di Handke, quello iniziato Nei colori del giorno del 1980, ispirato a Cézanne, che è il suo maestro segreto, come già lo era stato di Rilke: è così che il cerchio si chiude su questa provincia poetica della letteratura di lingua tedesca, che ha come protagonisti scrittori dei confini: dai poeti barocchi della Slesia, a Eichendorff, da Rilke a Handke. Autori periferici che hanno «esplorato le periferie e le specificità dell’esperienza umana». E qui il discorso investe la specificità della letteratura austriaca e della letteratura ebraico-tedesca, quella della Vienna di Schnitzler e della Praga di Kafka.
Handke si situa all’estrema periferia della Mitteleuropa. Saliamo verso nord-est e incontriamo la Prussia, ormai polacca, quella dei Vagabondi e degli eretici ebrei frankisti dei Libri di Jakub di Olga Tokarczuk: una scrittrice polacca e uno austro-sloveno, doppio Nobel per la Mitteleuropa.