Sono passati quarant’anni dall’uscita nelle sale giapponesi di House, il lungometraggio camp, horror e kitsch diretto da Nobuhiko Obayashi che proprio con questo film debuttava sul grande schermo, dopo una carriera nel cinema sperimentale prima e nella pubblicità televisiva poi. In quest’ultimo decennio House è stato «riscoperto» dal pubblico e dalla critica occidentale grazie anche a curate edizioni in dvd e Blu-ray e questo interesse per il film ha portato a delle interessanti retrospettive sull’opera di Obayashi, sia in Europa che in America. Un po’ come succedeva nel film del 1977 però dove la casa divorava poco a poco tutte le ragazze che ospitava, House ha finito per «mangiare», oscurare ed appiattire l’ampia e varia filmografia di Obayashi, più di quaranta lavori per il grande schermo, senza contare i corti d’avanguardia fra gli anni cinquanta e sessanta e i telefilm per la televisione negli ultimi decenni del secolo scorso.
Uno dei pochi registi ed artisti giapponesi della generazione che l’orrore del secondo conflitto mondiale l’ha vissuto in prima persona, il regista è nato nel 1938 ad Onomichi nella prefettura di Hiroshima, Obayashi in questi ultimi anni si è dedicato alla realizzazione di due film che affrontano il tema della guerra, Casting Blossoms to the Sky nel 2012 e Seven Weeks due anni dopo.

 

 
Diagnosticatogli un tumore che sembrava avergli lasciato pochi mesi di vita, nel 2016 Obayashi decide come ultimo atto della sua carriera di ritornare ad un progetto mai realizzato 40 anni prima, al tempo di House, la trasposizione sul grande schermo di Hanagatami, una novella del 1937 di Kazuo Dan.
Miracolosamente il regista riesce a curarsi e Hanagatami, che diventa così il terzo capitolo di una trilogia sulla guerra e la mobilitazione totale degli anni trenta, è attualmente nelle sale dell’arcipelago dove sta riuscuotendo un certo successo di critica e di pubblico.

 

 

La storia racconta di un gruppo di adolescenti, della loro amicizia, dei loro amori, passioni e speranze alla soglia del secondo conflitto mondiale, relazioni amorose si disfano e ricongiungono, attrazioni sensuali si incrociano con perversioni sessuali e malattia, una delle ragazze soffre infatti di tubercolosi mentre uno dei protagonisti è stato costretto a passare gli anni giovanili nel suo letto. Le nubi della guerra e l’atmosfera di incombente catastrofe sono presenti più o meno in sottotraccia durante tutto il film, in modo più evidente quando uno dei professori della scuola veine chiamato al fronte o attraverso una sorta di scena-sogno ricorrente dove si vedono dei bambini correre e recitare una sinistra cantilena e dei soldati con i visi colorati di bianco marciare.

 

Lo stile e l’andamento narrativo è fuori da qualunque schema di cinema commerciale contemporaneo, Obayashi è eccessivo in tutto e per tutto, colori super saturi quasi da melodrammone americano degli anni cinquanta ed una creazione dello spazio cinematografico che ha pochi paragoni. Quasi una pittura cubista trasposta sul grande schermo, un collage di spazi artificiali e luoghi naturali messi assieme in un patchwork di stili, il tutto tenuto insieme da un editing allucinato ed ipercinetico che dona al film un ritmo da flusso di coscienza. Ma i momenti di poesia e di malinconica bellezza che punteggiano Hanagatami, una petalo di rosa che si trasforma in sangue, la luna di carta di una grandezza irreale ed in particolare la purezza di alcuni personaggi bilanciano l’eccessiva sperimentazione e fusione di stili che caratterizzano il cinema di Obayashi e rendono il film una delle più interessanti visioni di questo 2017 giapponese.