Una grossa novità nel Booker Prize ha fatto sì che la giuria lo assegnasse, per la prima volta, a un romanzo ancora in traduzione: The Vegetarian, pubblicato da Hogarth Press (con le 50.000 sterline del premio divise in parti uguali fra l’autrice, la sud-coreana Han Kang, e la traduttrice britannica Deborah Smith). Sulla scia del successo londinese, il romanzo viene ora pubblicato in Italia da Adelphi, tradotto dall’inglese da Milena Zemira Ciccimarra, con il titolo La vegetariana (pp. 178, euro 18,00). Breve e intenso, il libro è diviso in tre parti (pubblicate originariamente in forma separata). La prima è una narrazione in prima persona di un mediocre impiegato di Seul, poco coraggioso e pieno di pregiudizi (tipicamente maschilistici) a cui capita un evento inatteso: la docile moglie, che ha oculatamente sposato, decide all’improvviso, in seguito a un orribile sogno (del quale abbiamo, come di altri, la trascrizione in corsivo), che non vorrà più né mangiare né cucinare carne.

Nonostante gli interventi della famiglia e quelli violenti del padre, già eroe nella guerra in Vietnam, Yeong-hye resiste, e in un drammatico confronto famigliare, si taglia i polsi. La seconda parte, in terza persona, è raccontata dal punto di vista del cognato di Yeong-hye, marito della sorella In-hye, un artista che produce video di uccelli in volo, il quale, ossessionato dall’aver saputo che Yeong-hye conserva dall’infanzia sul coccige una «voglia», una minuscola «macchia mongolica», riesce a convincerla affinché posi per lui nuda, con fiori dipinti su tutto il corpo; gira un video in cui la cognata simula di accoppiarsi con un amico del fotografo, anche lui con il corpo dipinto con fiori, poi l’abbraccia lui stesso e fa l’amore con lei. In-hye arriva sulla scena, si scandalizza e chiama un’ambulanza per far ricoverare i due amanti, come fossero pazzi. La terza parte è raccontata anch’essa in terza persona, questa volta dal punto di vista di In-hye; mentre la sorella precipita nella anoressia e nelle sue ossessioni, sentendo di essersi lei stessa trasformata in una pianta, In-hye cerca disperatamente di salvarla e di identificarsi con lei, recuperando i sogni e le esperienze angosciose della loro infanzia.

Due gli ordini di considerazioni cui si presta questo romanzo, che ha ricevuto in Inghilterra apprezzamenti entusiastici: la prima riguarda problemi estetico-letterari. La compattezza della narrazione, la concentrazione tematica e formale (che fa pensare alla poesia, fra Baudelaire e Takuboku Ishikawa), la incisività di alcune invenzioni simboliche (che si spingono fino all’allegoria moderna), possono – per la loro stessa essenzialità– spiegare lo straordinario variare delle interpretazioni critiche di volta in volta proposte, in chiave psicoanalitica, femminista, culturale, sociologica, politica.

I temi su cui si è fissata l’attenzione sono stati i più diversi: l’anoressia e la vita fisica della donna, i sogni invasivi, la prepotenza maschile, la violenza sessuale, le imposizioni della famiglia, l’istituzione del matrimonio e la rigida etichetta della società coreana, le costrizioni imposte dai vestiti e dalla biancheria intima, l’adulterio, la passione per la natura e per l’arte, e così via. L’elusività stessa (e la concentrazione) dei simboli spiegano il fascino del romanzo e l’ampio ventaglio delle interpretazioni.
Si sa che Kang durante gli anni dell’università si innamorò di un verso del poeta coreano Yi Sange: «Ritengo che gli esseri umani dovrebbero essere piante»; da questa idea si irradiano molti dei simboli del suo romanzo, derivati dal regno animale e da quello vegetale, sia positivi sia negativi: il passerotto insanguinato che Yeong-hye ha stritolato con le mani mentre si denudava nel giardino dell’ospedale; la macchia mongolica azzurra che appare sulle natiche dei bambini asiatici e che solo in pochi casi, come in quello di Yeong-hye, permane nell’età adulta e nutre il desiderio ossessivo del cognato («avrebbe desiderato condividerla con lei, che gli venisse impressa sulla pelle come un marchio a fuoco. Voglio inghiottirti, voglio che tu ti sciolga dentro di me e scorra nelle mie vene»); il tentativo del cognato, davanti allo scandalo e alla reazione della moglie, di gettarsi nel vuoto e volare in cielo; il sogno in cui la sorella comincia a immedesimarsi con Yeong-hye, a divenire come lei: «Guarda, sorella, sto facendo la verticale; sul mio corpo crescono le foglie, e dalle mani mi spuntano le radici… Affondo nella terra. Di più, sempre di più, all’infinito…Sì, ho allargato le gambe perché volevo che in mezzo vi sbocciassero dei fiori».

Fino al momento finale, in cui In-hye si trova su un’ambulanza, dopo che ha portato via dall’ospedale psichiatrico la sorella, e guarda fuori: «Vede un uccello nero che si leva in volo verso le nuvole scure. Il sole estivo la abbaglia, le fa bruciare gli occhi, e non riesce più a seguire con lo sguardo il suo volo. Inspira in silenzio. Gli alberi sul ciglio della strada sono sfolgoranti di luce, un fuoco verde che ondeggia come i fianchi di un animale imponente, feroce e selvaggio. In-hye fissa accanitamente gli alberi. Come se attendesse una risposta. Come se protestasse contro qualcosa. Lo sguardo nei suoi occhi è cupo e insistente». Sono le ultime righe del romanzo. Contro chi è rivolta la protesta? Contro la famiglia? Contro i codici di comportamento sociale? Contro l’ideologia maschilista? Contro gli ospedali psichiatrici rappresentati come istituzioni foucaultiane di repressione e controllo?

L’altro tipo di riflessioni è stato inaugurato, in una recensione sulla «New York Review of Books» da Tim Parks, che ha posto con forza la questione della traduzione, in particolare da una lingua che né i lettori, né i recensori, (e tantomeno i giurati del Booker Prize) conoscono e che nessuno può confrontare o controllare con l’originale. Parks esamina una serie di soluzioni lessicali e costruzioni sintattiche, soprattutto nella prima parte del libro, che gli sembrano stonate, perché accostano modi alti con modi rozzi e volgari, o pensieri troppo intricati per essere stati espressi dal signor Chong, il banalissimo marito di Yeong-hye.

Certo, Parks non può decidere se tali stonatura siano da attribuire alla scrittrice originale o alla traduttrice inglese. Per esempio: nella frase «However late I was in getting home, she never took it upon herself to kick up a fuss», a Parks pare inaccettabile la compresenza di un’espressione del linguaggio sostenuto come «to take upon oneself» con una idiomatica come «to kick up a fuss». Sono molti altrui gli esempi che elenca e, alla fine, si chiede se si tratti di una scelta dell’autrice per esprimere la scarsa padronanza che il signor Chong ha non solo della propria vita, ma anche del linguaggio, o se la vera responsabile sia la traduttrice.

È curioso che, in questo come in parecchi altri dei casi segnalati da Parks, la versione italiana scelga una soluzione che risulta assai meno stridente del corrispondente inglese: «Per quanto tardi arrivassi a casa, non si sognava mai di piantar grane» (soluzione ottima anche per l’uso metaforico del sogno, che è attività particolarmente adatta al personaggio).

Viene da chiedersi se la traduttrice italiana abbia avuto modo di leggere il saggio di Parks e tener conto delle sue osservazioni oppure se (ammesso che la caduta di gusto sia stata responsabilità della traduttrice inglese, premiata con 25.000 sterline) si tratti di un felice caso di trasmissione del pensiero e del linguaggio, il cui risultato è una miracolosa aderenza al testo originale coreano, che nessuno di noi conosce.