Si potrebbe ripercorrere l’intera parabola della letteratura romantica – e forse moderna – partendo da due parole tedesche: Heimweh e Ferneh. Se la prima è facilmente traducibile in italiano con «nostalgia», la seconda indica invece una tensione commossa per l’altrove, un irrequieto desiderio di fuga nella distanza. In questa stessa oscillazione tra il bisogno struggente di un ritorno a casa, e l’inquietudine del viaggio, o il rifiuto di ogni fissità, si potrebbe riassumere anche il percorso di Knut Hamsun, forse il più grande scrittore di lingua norvegese del Novecento. Almeno tre capolavori Fame, Misteri e Pan, lo imposero a cavallo del secolo come una delle voci più sensibili e originali della letteratura scandinava: tra le sue pagine, era il solitario senza patria, misconosciuto ed emarginato, a rappresentare il centro di gravitazione delle vicende. Quella che era stata la nostalgia notturna del «sentirsi ovunque a casa» presso Novalis, viene trasfigurata nelle atmosfere nitide e solari delle estati boreali di Pan, incarnandosi nella figura del Wanderer solitario e senza dimora.

All’orizzonte, una dimora
La scrittura sempre oggettiva e precisa di Hamsun è capace di restituire l’angoscia del vagabondo e del reietto, dispensandola da ogni sentimentalismo. Non a caso, il suo lirismo libero da ogni inclinazione intimista, unito a uno stile asciutto e al tempo stesso onirico, colpirono scrittori tanto diversi tra loro come Thomas Mann, Franz Kafka, Bertolt Brecht.

Approdato al romanzo Germogli della terra, da poco disponibile nella prima traduzione integrale italiana dal norvegese (a cura di Sara Culeddu, Einaudi, pp. X – 430, € 22,00), Hamsun mette finalmente in scena la possibilità di una dimora: o meglio, la sua costruzione. La vicenda del pioniere Isak e della sua famiglia è, infatti, anzitutto quella dell’esercizio quotidiano del lavoro, che poterà alla costruzione della fattoria Sellanraa. E probabilmente proprio l’avere tessuto una epica del lavoro fece vincere a Hamsun il Nobel nel 1920.

Desiderio di lontananza e nostalgia di una casa si fondono mirabilmente in quella che, retrospettivamente, sarebbe apparsa un’utopia reazionaria. Del resto, l’entusiastica adesione di Hamsun al nazionalsocialismo, e l’apprezzamento della sua opera da parte di intellettuali nazisti come Rosenberg, confermano gli elementi regressivi presenti in questo idillio: la colonizzazione delle selvagge terre del Nord da parte di Isak si scontra tanto con le popolazioni autoctone lapponi, quanto con il capitalismo predatorio delle compagnie minerarie finanziate dal grande capitale estero: in comune, uno spirito parassitario, antitetico alla spontanea etica del lavoro incarnata da Isak. Accanto a tutto ciò, il ruolo domestico della donna, portatrice di una forza ambigua e quasi ctonia, e l’assunzione dell’ordine naturale come cornice nonché orizzonte dell’esistenza, che scandisce tanto le stagioni quanto il lavoro. Tutto questo forma un retroterra problematico, ostile al capitalismo avanzato quanto al progresso sociale, e getta sulla narrazione di Hamsun un’ombra sottile.

Ma la scrittura è piana e schietta, e nulla ha in comune con il torbidume irrazionalista, né con il rancore di matrice fascista. Protetto da un velo di ironia, Hamsun sembra quasi prendere in giro i propri personaggi, canzonandoli con tenerezza, e sottolineandone le difformità (anche fisiche) e le inadeguatezze alla vita civile. Isak, pur incarnando limpidamente la figura (tutta borghese) del lavoratore robinsoniano, capace di creare autonomamente valore, è – come la moglie Inger – soprattutto un outsider, un disadattato che non ha voluto o potuto inserirsi in quella divisione borghese del lavoro da cui ha scelto di fuggire. La loro casa è tra le foreste, lontana dal trambusto cittadino e dalla logica dell’accumulazione monetaria. È quindi soprattutto in questa ambivalenza tra ingenuità infantile e violenza inesplicita, tra anti-capitalismo regressivo e riappropriazione spontanea del lavoro, tra naturalizzazione della società patriarcale e ritorno alla natura, che si esprime il fascino della scrittura di Hamsun.

Cento anni dopo, la sua epica sembra non aver perduto il carattere di una equivoca malìa, forse perché in questa stessa ambiguità rischiano tutt’ora di ricadere le diverse forme di rifiuto del capitalismo e della modernizzazione, incerte tra rivolta contro il capitalismo avanzato e nostalgie regressive, tra ricerca di un rapporto non reificato con la natura e inclinazione a riprodurre come naturali rapporti «umani, troppo umani».

Una natura conciliata
Tuttavia, l’interesse di Germogli della terra sta, com’è ovvio, non nelle prese di posizione di Hamsun, bensì nell’esperienza di una vita e di una temporalità diverse da quelle correnti, in una diversa scansione delle opere e dei giorni, alternativa e lontana dalla nostra frenetica quotidianità urbana, assecondata da quella prerogativa della letteratura che consiste nel rendere tangibili esperienze inattingibili. Mentre seguiamo Hamsun tra le foreste della Norvegia, si avverte la nostalgia per un mondo che non è mai stato e probabilmente non sarà mai, nel quale la natura, nonostante gli elementi sempre latenti di violenza e di inquietudine, pare essersi conciliata con l’uomo. Come hanno fatto notare i critici più accorti, non solo l’utopia di Sellanraa è attraversata da ambiguità e ombre oscure, ma il suo stesso esito è ironicamente contraddittorio e niente affatto idilliaco. Ed è proprio in queste zone d’ombra, e soprattutto nella capacità di lasciarle tali senza scadere in un’oscurità posticcia, che il genio narrativo di Hamsun mostra la propria specificità.