«Hammershøi è uno di quelli di cui non si deve parlare troppo precipitosamente. Il suo lavoro si inscrive nella distanza e nella lentezza; quale che sia il momento in cui lo cogliamo, esso offre materia di riflessione su ciò che di importante e di essenziale vi è nell’arte». Parole di Rilke, che nel 1904 si reca a Copenaghen per conoscerlo e raccogliere materiale per un saggio da dedicargli. Ma non incontra che un silenzio eccentrico, duro da scalfire, nell’appartamento al primo piano in via Strandgade 30. Un appartamento vissuto da Hammershøi come uno stato d’animo, una condizione dell’essere e del fare, dove l’artista vive, tra il 1898 e il 1909, gli anni più fecondi della sua carriera. Quest’uomo taciturno, restio a parlare di sé e della propria opera, refrattario alle pubbliche apparizioni, ma nondimeno interessato alla propria affermazione professionale, mena con la moglie Ida una vita appartata. L’amico e critico d’arte Karl Madsen lo definisce «il primo pittore nevrastenico danese», quando con questo generico aggettivo si diagnosticava una certa turba artistica in voga nel decadentismo fin de siècle.
Osservando le oltre quaranta opere in mostra al Musée Jacquemart-André di Parigi, Hammershøi Le maître de la peinture danoise (a cura di Jean-Loup Champion e Pierre Curie, fino al 22 luglio), ci accorgiamo di quanto esatte siano le parole di Rilke. Di distanza e lentezza si nutrono infatti le sue immagini. Ma forse per Hammershøi più che per altri è lecito parlare di apparenze. Perché ogni elemento che campeggia sulla superficie delle sue tele è presente come una vita estranea, una tensione vibrante dove i toni di grigi offrono una velata sospensione dell’ombra e uno sguardo clinico sulla luce. E dove la ricerca maniacale della composizione semplice attiva la geometria lineare come antidoto contro l’aneddotica o qualsivoglia narrazione. Nessun cedimento dunque a orpelli o decorazioni. Il suo è un lavoro continuo di sottrazione, di assenza, dove la realtà è levigata fino all’essenziale. L’apparente stasi qui diviene atmosfera malinconica e la malinconia un sentimento insondabile.
Formatosi inizialmente all’Accademia reale di Belle Arti di Copenaghen, Hammershøi (1864-1916) è immerso in un clima di adulazione per i pittori dell’età aurea danese della prima metà dell’Ottocento, Eckersberg e Købke su tutti. Il loro neoclassicismo d’obbligo nell’insegnamento accademico viene stemperato da atelier indipendenti che il nostro frequenta a partire dal 1883. Hammershøi non sembra abbandonare del tutto la tradizione danese. Ma se su un piano formale giunge a una frammentazione per tocchi dei suoi soggetti, vivificati da brevi oscillazioni, vuole altresì proiettare sulla certezza del mondo sottesa a quella tradizione una sospensione straniante, il velo gelido del dubbio. Scrive Poul Vad, specialista di Hammershøi, che «l’eco della tradizione che risuona nella sua pittura è impregnata di una sensibilità risolutamente moderna». Se non esplicitamente di simbolismo, possiamo parlare nella sua opera di una fredda tensione che, dato il tema domestico che lo caratterizza, ci conduce a un’osservazione analitica del mistero e dell’inquietudine esistenziale. E questo avviene non senza un uso peculiare della tavolozza. In una delle rare interviste rilasciate Hammershøi dice di essere «intimamente convinto che meno il quadro è colorato, più è riuscito dal punto di vista cromatico». In effetti i suoi colori non sono mai una semplice mescolanza di bianco e di nero, ma una vasta gamma di grigi e di bruni. E con una tale tavolozza dimostra che non è interessato alla riproduzione veritiera dell’oggetto, quanto a una sua resa sensoriale astraente.
Eppure il carattere fotografico della sua pittura suggerisce un livello elevato di oggettività. La relazione con la fotografia di allora non è data solo dai grigi, ma anche dalle inquadrature, anomale per delle opere pittoriche. Hammershøi, non dissimilmente dal nostro Balla prefuturista, lavora con la fotografia e sfida, trasfigurandola, la nuova tecnica di registrazione della realtà. E questa trasfigurazione accentua il senso di solitudine, vuoto e silenzio che permea le sue opere, come nel caso della grande tela notturna Cinque ritratti (1902). Un’opera che fu presentata anche alla Biennale di Venezia e che inquadra intorno a un tavolo la sua ristretta cerchia di sodali artisti in un interno-notte, illuminato da due candele che sembrano citazioni di Georges de La Tour. Un’atmosfera perturbante, dove i volti emergono solitari e austeri, come da tenebre. Ciascuno immerso nel proprio fuoco, nella propria bolla di luce e penombra. In tutta la sua carriera Hammershøi non si interessa al ritratto in generale. Come Degas dipinge per pochi amici, ritrae solo ciò che conosce più intimamente. Ma a caratterizzare il suo lavoro è l’assenza totale di rilievo psicologico, e la sensazione che si evince è che ogni elemento che viene dipinto, persone, interni, paesaggi, è trasformato irrimediabilmente in vita silente, in natura morta.
Una scelta, questa, già caratterizzante l’opera giovanile dell’artista. Ne è chiaro esempio la piccola tela del 1886 in cui dipinge la madre Frederikke seduta di profilo con le mani sulle ginocchia e lo sguardo rivolto davanti a sé. Un’opera esplicitamente ispirata al quadro, antecedente di quindici anni, Arrangiamento in grigio e nero, ritratto n. 1 (anche detto Ritratto della madre dell’artista) dell’americano Whistler, che Hammershøi stima particolarmente e che ha invano cercato di conoscere durante un soggiorno a Londra. Nonostante l’evidente ascendenza dell’americano sul danese, per la scelta cromatica dei grigi, il soggetto e la sua messa in posa, è chiaro come Hammershøi lavori per creare uno spazio il più possibile neutro, scevro da elementi di decorazione, concentrandosi sul silenzioso enigma della madre.
E silenziosi ed enigmatici sono gli interni domestici, che diventano il suo soggetto più ricorrente. Nei Passages Benjamin parla di Wohnsüchtig (cioè di addizione all’abitazione) a proposito della condizione d’essere dell’Ottocento a fronte della crescita minacciosa dell’urbanizzazione. Gli interni delle dimore sono allora il guscio protettivo dall’instabilità caotica delle città in crescita. Hammershøi fa della propria abitazione, in tutte le sue parti, un rifugio, un’atelier e allo stesso tempo un cosmo da contemplare da varie angolazioni, un po’ come il giardino acquatico dell’ultimo Monet. Insieme con la moglie Ida produce il proprio mondo riducendo il mobilio all’essenziale, perlopiù elementi Stile Impero e Biedermeir. Muri e soffitti sono tinteggiati di grigio e di bianco le boiserie, le porte e le cornici. Felix Krämer giustamente osserva che «Hammershøi ha fatto della sua abitazione un laboratorio pitturale, un luogo dove il suo processo creativo può circolare all’interno di un monologo interiore». Una scelta, questa degli interni, che nasce sia dall’indole riservata dell’artista, sia dal favore del mercato, sia dalla tradizione del Seicento olandese, cui Hammershøi guarda con grande attenzione. Ma Vermeer ed Elinga, più volte visti ad Amsterdam, vengono sistematicamente spogliati dei loro cromatismi e narrazioni. E allora la donna in piedi, di profilo o di spalle, e le prospettive di porte aperte e di raggi polverosi di sole, che filtrano da finestre opache e si stampano sull’impiantito o in tralice su un muro, appaiono in Hammershøi come i soli protagonisti di un dialogo serrato coi fantasmi.