Hamid Drake è un batterista che suona (anche) come un vibrafonista, Pasquale Mirra è un vibrafonista che suona (anche) come un batterista. I loro linguaggi si compenetrano. In concerto si ascoltano, si cercano certo, ma si troverebbero comunque, perché il dna del loro stile li porterebbe inevitabilmente ad interagire l’uno con l’altro. La sintassi delle loro idee musicali segue regole limitrofe. E i rivoli di ogni spunto sonoro – un accento, un colpo, una virata rumoristica, un silenzio – finiscono per incrociarsi con una perentorietà fatta sì dal cemento di una lunga frequentazione (i due si esibiscono insieme dal 2008), ma anche da questa metempsicosi poetica, grazie alla quale probabilmente, in una vita passata, si sono ritrovati entrambi a percuotere noci di cocco in un atollo sperduto o a battere il legno di un albero con il becco da picchio. Vederli nel fastoso scenario del Teatro Olimpico di Vicenza con intorno il florilegio di decine di personaggi in pietra a far loro da corredo e davanti il pubblico di Vicenza Jazz nel cui ricco cartellone il loro set è stato inserito, è sembrata una coincidenza felice.

INIZIALMENTE il concerto doveva tenersi nel giardino dello stesso teatro, poi una minaccia di pioggia, ha spinto gli organizzatori a proporlo all’interno, nel cuore di quello che è l’ultimo capolavoro del Palladio: un crocevia di prospettive, un omaggio al teatro classico ideato con l’intento di vivisezionare lo spazio scenico e giocare con i trompe l’oeil e l’illusionismo architettonico. Sono tattiche che si possono trasporre facilmente e legare anche metaforicamente al manovrìo dei due jazzisti. Il loro set è pieno di citazioni del jazz classico e di fughe in avanti, intriso di tradizione e di voglia di confonderne i dettami. Drake, brillante, sensibile e potente batterista di Chicago, nato a Monroe in Louisiana nel ‘55, si trasferisce ad Evanston – Chicago qualche anno dopo e inaugura un tirocinio strumentale che parte dai caposaldi soul e funk della Stax e della Motown per arrivare a Max Roach ed Ed Blackwell (due batteristi che ne hanno temprato fortemente il linguaggio). Prima e dopo mille altre digressioni, tra cui vale la pena senz’altro citare quella fortemente ecumenica e intrisa di ritmi ancestrali della Mandingo Griot Society di Foday Muso Suso. Pasquale Mirra, anche per quanto riguarda il pedigree professionale segnala tracciati affini al partner afroamericano. Campano residente a Bologna, è diventato negli ultimi anni uno dei solisti più eclettici e probabilmente il più titolato interprete del vibrafono della scena contemporanea europea. Michel Portal, Fred Frith, Nicole Mitchell, Aziz Sahmaoui, Tristan Honsinger, Ernst Rijseger, Rob Mazurek, Ballakè Sissoko, Buch Morris, Jeff Parker, Micheal Blake l’hanno voluto al fianco in questi anni, ma il suo magistero strumentale è finito anche nei dischi e nelle escursioni live di combo davvero sincretici come quelli dei berlinesi Mop Mop e dei bolognesi C’Mon Tigre.

A VICENZA i due sono arrivati con un patrimonio di incontri che ha cementato la loro simbiosi artistica. Si conoscono talmente bene, da poter decidere le scansioni della scaletta con uno sguardo. Drake a un certo punto imbraccia un grande tamburo a cornice e lo percuote con una muscolaritá del gesto che ricorda il funk. Mirra se ne accorge e spinge su quel tasto, facendo roteare i quattro martelletti che impugna con una sorta di convulsione controllata, ossessiva e dirompente. Il jazzista italiano sfrutta le sonorità del suo vibrafono, sia giocando con il controllo del pedale e di conseguenza degli armonici, sia stoppando di tanto in tanto il suono dei tubi risuonatori con tappetini di gomma, oppure utilizzando (come fa nel bis) delle vere e proprie bacchette al posto dei martelletti, cosicché i tasti del suo idiofono diventano ancora più tintinnanti e la sua trasfigurazione in batterista si compie clamorosamente. Ma è nell’innesto degli imput ritmici di Hamid Drake sul vorticoso piano armonico di Mirra che si gioca la cifra stilistica del duo. Drake, in questo senso, è davvero un batterista chicagoano temprato dal free. Non ha paura delle pause, non paga dazio alla sua militanza in gruppi soul e reggae e perde volontariamente ogni “continuità” troppo didattica e didascalica. Le sue intrusioni ritmiche sono fatte di respiri e rimbrotti, di un deambulare su pelli e piatti che conserva la svagata surplace del suo maestro Ed Blackwell. Alla fine le novantacinque statue del Teatro Olimpico si gemellano con i novanta spettatori distanziati concessi dal protocollo e tributano ai due una meritatissima ovazione.