Le dimissioni di Abdalla Hamdok sono state una sorpresa per tanti. Ma erano nell’aria da giorni. Da quando il premier, reintegrato a fine novembre nel suo incarico dai militari golpisti che lo scorso 25 ottobre lo avevano arrestato e rimosso, si è reso conto del fallimento della sua scelta di andare al compromesso con il generale Abdul Fattah al Burhan, l’uomo a capo del golpe. Hamdok non è riuscito a formare un nuovo governo e negli ultimi giorni, hanno riferito i media locali, non è più andato al suo ufficio. Il power-sharing, civili e militari assieme, cominciato nel 2019 con la rimozione dal potere del presidente Omar Al Bashir, non funziona più perché una delle due parti, le forze armate, intende mantenere il potere reale nelle sue mani e lasciare all’altra solo incarichi di facciata. Hamdok, in diretta tv, si è rivolto così alla nazione: «Ho fatto del mio meglio per evitare che il Paese scivolasse verso il disastro…ma vista la frammentazione delle forze politiche e i conflitti tra le componenti civile e militare della transizione, ciò non è avvenuto». Il Sudan, ha aggiunto, «è a una svolta pericolosa, che mette a rischio la sua stessa sopravvivenza».

Hamdok era divenuto un bersaglio delle proteste popolari dopo che la sua alleanza con i militari aveva portato all’estromissione dall’esecutivo delle Forze per la libertà e il cambiamento, espressione della società civile e protagoniste della sollevazione contro Al Bashir. Sulla sua decisione pare abbia pesato anche la sua impotenza di fronte alle continue uccisioni di manifestanti schierati contro il golpe. Domenica ci sono stati altri tre morti ad Omdurman (Khartoum) e giovedì scorso sei persone erano state uccise e centinaia ferite, in totale sono 56 morti da ottobre. E la brutalità delle forze di sicurezza a fine dicembre, secondo l’Onu, è sfociata in violenza sessuale ai danni di almeno 13 donne e ragazze. «Non ci fermeremo, non ci arrenderemo, continueremo a lottare per avere un governo civile, senza militari, che continui la transizione democratica in Sudan» ci diceva ieri al telefono da Kahrttoum Shukri Abu Gamal, nome di fantasia di un attivista delle mobilitazioni nella capitale sudanese contro i militari golpisti. «Sappiamo che sarà dura e temiamo che l’esercito (dopo le dimissioni di Hamdok) userà la forza e la violenza persino più di prima», ha previsto Abu Gamal. Oggi ci sarà una nuova ampia manifestazione a Khartoum che dovrebbe raggiungere l’area del palazzo presidenziale.

I militari ora sono al comando esclusivo del paese. L’accordo di novembre tra il premier dimissionario e Al Burhan era nato per calmare la protesta popolare e dare tempo alle parti per rielaborare le disposizioni costituzionali. Le cose non sono andate in quel modo. Nelle strade i sudanesi hanno continuato a manifestare trovandosi di fronte un esercito sempre pronto a spegnere nel sangue le contestazioni. Hamdok non è stato in grado di portare a termine nulla, né politicamente né amministrativamente. La prospettiva più concreta al momento è un ritorno al tipo di governo che il Sudan ha visto sotto il regime di Bashir, appoggiato dagli islamisti. L’analista sudanese Kholood Khair ha scritto su Twitter che le dimissioni di Hamdok rimuovono qualsiasi operazione di facciata in cui i generali possano presentare il golpe come qualcosa di diverso da un ritorno alla politica islamo-militare di Bashir.

Gli Stati Uniti, con l’uscita di scena di Hamdok, esortato i leader sudanesi «a garantire il mantenimento del governo civile». Niente di più. Una reazione timida, come quella di molti altri paesi. Nel frattempo, i militari sudanesi si sono concessi maggiori poteri per fermare il dissenso. Al Burhan pochi giorni fa ha emesso un decreto che vieta di fatto le proteste di piazza e consente alle forze di sicurezza di entrare e perquisire qualsiasi edificio o individuo. Ma sbaglia chi pensa che Al Burhan sia isolato. Dalla sua parte ha Egitto, Israele e gli altri paesi firmatari degli Accordi di Abramo. A cominciare dagli Emirati. Ieri mentre Hamdok lasciava il suo incarico l’azienda Emirates Stallions ha annunciato la costruzione, con un investimento di 65 milioni di dollari, di un hotel enorme, alto16 piani, nel centro di Khartoum e di resort con centinaia di stanze. Ed è solo il primo di una serie di progetti. Abu Dhabi si preoccupa dei bisogni dei ricchi in un paese alla fame che ha bisogno urgente di aiuti internazionali per sopravvivere.