«L’annessione che Israele progetta in Cisgiordania è una dichiarazione di guerra». Ha fatto la voce grossa l’altro giorno Abu Obeida, responsabile per i rapporti con i media delle Brigate Ezzedin al Qassam, l’ala militare di Hamas. Parole alle quali ha subito reagito il ministro della difesa israeliano Benny Gantz. «Israele non accetta minacce. Ricordo ai leader di Hamas che saranno loro i primi a pagare per qualsiasi aggressione», ha avvertito Gantz. Ma dietro le parole infuocate di Abu Obeida c’è davvero Hamas pronto anche ad usare le armi pur di fermare l’annessione a Israele di porzioni di Cisgiordania? I dubbi sono forti.

In queste ultime settimane non è sfuggito il basso profilo mantenuto sull’annessione dal movimento islamico che controlla Gaza dal 2007 e che da allora è impegnato in uno scontro senza esclusione di colpi con il partito Fatah, spina dorsale dell’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. Di tanto in tanto leader e portavoce di Hamas hanno condannato con forza il piano israeliano. E hanno applaudito alla decisione presa da Abu Mazen di interrompere i rapporti con Israele e Stati uniti. Non sono andati molto oltre, lasciando intendere che, pur sostenendo la lotta dei «fratelli palestinesi» in Cisgiordania, l’organizzazione manterrà una posizione più defilata ma pronta ad intervenire.

«Ciò non deve sorprenderci» ci dice l’analista Ghassan al Khatib, docente di scienze politiche all’università di Bir Zeit. «Ci sono diverse ragioni che spiegano questa posizione cauta», aggiunge Khatib, «Hamas è una organizzazione islamista e solo vagamente anche nazionalista. Perciò guarda al territorio nel suo insieme, teorizza la liberazione di tutta la Palestina e nell’arco della sua esistenza (dal 1987 a oggi, ndr) ha avuto posizioni fluttuanti sull’idea di uno Stato palestinese solo nei Territori occupati da Israele nel 1967, anche solo a scopo tattico».

La soluzione a Due Stati (Israele e Palestina), prosegue l’analista, «appartiene all’Anp, all’Olp, ad Abu Mazen, a Fatah e ad altre forze politiche, non ad Hamas che l’ha respinta assieme agli accordi di Oslo del 1993». Secondo Khatib il movimento islamico in questa fase interessato più di ogni altra cosa «a rafforzare il suo controllo di Gaza e a stabilizzare le condizioni di vita dei (due milioni di) palestinesi che vi vivono».

Secondo un’opinione diffusa proprio i problemi umanitari a Gaza sono tra i motivi che inducono Hamas a una linea prudente. «La nostra gente condanna Israele e sostiene la lotta contro i suoi piani in Cisgiordania. Però è anche esausta dopo tre offensive militari israeliane negli ultimi 12 anni. Non c’è lavoro, la povertà estrema è in aumento e il coronavirus ha complicato tutto. Migliaia di famiglie sopravvivono grazie agli aiuti che arrivano dal Qatar. Hamas sa che Gaza non è in grado di sopportare le conseguenze di un’altra guerra», ci dice Aziz Kahlout, un giornalista di Gaza che, per le ragioni citate, tende ad escludere che i leader islamisti «possano ordinare alle cellule in Cisgiordania di attivarsi in un confronto armato prolungato con Israele e dare il via a lanci di razzi (da Gaza)».

E ricorda che Hamas resta sempre impegnato in un negoziato indiretto, attraverso l’Egitto, con Israele per il raggiungimento di una tregua a lungo termine e per uno scambio di prigionieri che, se dovesse concretizzarsi, rafforzerebbe la sua immagine e il suo programma tra i palestinesi.