Come Khaled Mashaal si sia ritrovato all’improvviso ad essere l’unico candidato alla carica di capo dell’ufficio politico di Hamas è davvero curioso. Per oltre un anno il leader ha ripetuto fino alla noia di voler lasciare l’incarico, per il quale si sono poi proposti Musa Abu Marzuq, eterno numero due del movimento islamico, e Ismail Haniyeh, premier del governo di Gaza e l’esponente di Hamas più popolare tra i palestinesi. E non era peraltro secondaria la «stanchezza» manifestata da Mashaal, rimasto al comando per 16 anni. Si attendeva perciò un cambio al vertice e invece tutto è rimasto come prima. Senza girarci troppo intorno a Gaza anche le pietre sanno che ad imporre Mashaal al comando di Hamas per un altro mandato sono stati Qatar, Turchia e, naturalmente, l’Egitto a trazione islamista. I leader di Hamas non hanno opposto resistenza alle imposizioni di chi finanzia generosamente il gruppo islamico, Qatar in testa, e di chi lavora con intensità per il suo riconoscimento nel mondo arabo e islamico e forse un giorno anche in Occidente. «La Turchia ha condizionato la (prossima) visita del premier Erdogan a Gaza alla riconferma di Mashaal», ci diceva ieri una fonte giornalista palestinese ben informata.

Così i 60 membri della Shura, il parlamento del movimento islamico, due giorni fa al Cairo, hanno votato a maggioranza per Mashaal che continuerà ad essere l’interlocutore palestinese preferito da Doha, Ankara e il Cairo. Soprattutto resterà un alleato ed esecutore delle strategie regionali dell’asse Qatar-Turchia che lavora per un nuovo ordine islamista (legato ideologicamente ai Fratelli musulmani) e che sull’onda della «primavera araba», dovrà prendere il posto delle macerie del nazionalismo arabo laico. Senza mettere in discussione gli interessi strategici degli Stati Uniti in Medio oriente e in Nord Africa. Meshaal interpreta bene questo ruolo di «tassello» di un ampio mosaico politico. Alterna posizioni moderate a dichiarazioni di fuoco contro Israele, proprio come fa Erdogan, che non cambiano nulla nella condizione palestinese. A Meshaal si deve inoltre la «svolta» di Hamas, sancita all’inizio del 2012 dallo strappo con l’amica e protettrice di sempre, la Siria di Assad, e il trasferimento degli uffici del movimento islamico in Qatar e in Egitto. Si è espresso anche a favore della proclamazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est ma non ha mai chiarito se questa soluzione dovrà essere definita o solo una tappa intermedia verso una Palestina senza Israele che il capo di Hamas dice di non voler riconoscere.

La riconferma di Mashaal accontenta gli sponsor regionali di Hamas ma non è detto che favorirà la riconciliazione tra gli islamisti e l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. I due leader mantengono rapporti cordiali e lo scorso anno hanno firmato un accordo per un governo di unità nazionale che però il braccio armato di Hamas ha respinto al mittente.  I comandanti militari di Gaza non amano la spinta «politica» che Mashaal ha impresso al movimento. Dopo aver dovuto accettare la sua riconferma, non sono disposti a fare altre concessioni, ossia a rinunciare al controllo esclusivo della Striscia permettendo il ritorno delle forze di sicurezza legate al partito rivale Fatah che hanno cacciato via nel 2007. E’ molto probabile che lo scambio di accuse tra Anp e Hamas, ripreso negli ultimi giorni, continui ancora a lungo.

Il punto sul quale concordano tutte le componenti di Hamas e gli sponsor esterni, è la re-islamizzazione di Gaza che già vanta una solida tradizione musulmana. Si deve leggere in questo senso la normativa pubblicata dal ministero dell’istruzione di Hamas – entrerà in vigore il prossimo anno – che vieta agli insegnanti maschi di lavorare in scuole femminili e che introduce classi separate per genere a partire dall’età di nove anni. Il provvedimento include anche le scuole private, cristiane e quelle delle Nazioni Unite. «Siamo musulmani – ha commentato l’esperto legale del ministero, Walid Mezher, in un’intervista alla Reuters – Non vogliamo convertire nessuno all’Islam, stiamo solo servendo il nostro popolo e la sua cultura». Ma la decisione che fa il paio con il divieto del mese scorso alle donne palestinesi di partecipare alla Maratona organizzata dalle Nazioni Unite.