«Ora vediamo solo la luce degli spari e non capiamo da dove provengono le bombe. È difficile alla mia età affrontare questa situazione, però qui nel rifugio mi sento sicura», erano le parole di Maria, 82 anni, che nel febbraio 2015 si trovava nel bunker antiatomico di Trudovskie nel quartiere omonimo di Donesk. Tre anni fa la guerra nel Donbass era cruenta, le periferie delle città erano completamente distrutte dai bombardamenti, le persone perdevano la vita mentre dormivano in casa per una bomba caduta sul tetto o mentre erano a lavoro. La guerra lì non è terminata dopo gli accordi di Minsk del 2015, si è solo trasformata in qualcosa di forse più spietato e perverso: ora sono i cecchini che, da entrambe le parti, come ricordano Roman Olearchyk e David Bond sul Financial Times, «In un secondo decidono la vita e la morte delle persone». «Contare i morti nella guerra dimenticata in Europa» è il titolo dato da Foreign Policy all’articolo di Amy Mackinnon per la situazione in Ucraina dove Alexander Hug, osservatore Ocse, spiega come sia impossibile definire di chi sia la responsabilità per gli scontri avvenuti in Ucraina che hanno causato 190 morti e circa 200.000 feriti nell’ultimo anno (più di 10000 morti dall’inizio del conflitto e molti esiliati all’estero). Entrambi gli schieramenti sono sempre in movimento e in continua preparazione per cercare di non essere sopraffatti dall’avversario. La carovana di camion militari russi dall’altra parte del confine è continua, come le esercitazioni dell’esercito regolare ucraino supervisionato da istruttori Nato. La situazione ucraina riporta indietro agli anni del bipolarismo, dove le due superpotenze (Usa/Urss) si confrontavano all’interno di altri stati sovrani. In Ucraina ci sono giochi di poteri che vanno al di là dei meri interessi dei confini geografici di una nazione, la Russia di Putin e gli Usa e la Nato si confrontano per quello che sarà il nuovo ordine mondiale giocato tra potenze e superpotenze e zone d’influenza nel post-modernismo. Igor, un ucraino che vive a Napoli da molto tempo, non è d’accordo: «Questa non è solo una guerra tra superpotenze, è una guerra per la libertà del nostro paese che va avanti da secoli, per sdoganarci dall’influenza egemone russa che ha sempre cercato di sottometterci. Perché Ucraina significa proprio questo: la mia terra».
GLI ESILIATI
Ma la guerra non si combatte solo sul campo ma anche a migliaia di chilometri di distanza dall’Ucraina. C’è chi la vive indirettamente e non se ne è dimenticato: sono gli esiliati, gli emigrati degli anni della caduta dell’Urss. Vivono la guerra con intensità e dolore non solo perché è il loro paese natio, ma anche perché hanno ancora amici, parenti, fratelli che sono coinvolti nel conflitto e lo vivono quotidianamente. Halya vive a Napoli dal 1999. Alla fine di quella decade molte ucraine vennero in Italia «… perché avevano detto che qui in molti cercavano donne di servizio o badanti», ricorda. Così Halya fece i bagagli e lasciò la famiglia e i bambini in Ucraina dove mensilmente mandava denaro. «Dolore, ho provato solo dolore», sono le parole di Halya ricordando il momento in cui ha visto quello che succedeva in piazza Maidan a Kiev nel 2014 e successivamente nella guerra scoppiata nel Donbass. «Quando è iniziato tutto questo mi sono sentita come se mi stessero togliendo qualcosa da sotto i piedi, qualcosa che tu puoi chiamare ‘casa’». Non si può dimenticare il dolore, non si può dimenticare una guerra che uccide i propri cari ed amici. Ma non solo dolore, anche rabbia per una ferita che ritorna viva dall’orrore dell’Holodomor del 1932-33, quando Stalin con la sua politica scellerata di creazione delle cooperative agricole causò la morte di milioni di ucraini portandoli alla fame. Nel 2014 Halya aveva comprato da poco un tablet, e spesso passava tempo a guardare quello che accadeva nel suo paese natio mentre lavorava. «Se volevano essere indipendenti potevano parlare e non venire alle armi». Halya parla di una lettera scritta da Tamara (nome fittizio) che viveva a Donesk e che ora si trova in Italia con parte della famiglia ma di cui non può fare il vero nome per non mettere in pericolo i suoi parenti che tuttavia vivono nel Donbass. Tamara raccontava di come vivevano una vita normale: lavoro, famiglia, amici … fino all’arrivo dei soldati russi armati fino ai denti, presero possesso del municipio e imposero le loro politiche, mettendo le armi in mano ai criminali, ai tossicodipendenti ed agli alcolizzati. Cosa poteva fare la gente normale? Tamara tra l’inchiostro e la carta esprime il desiderio di un ritorno al passato, vorrebbe che tutto ciò che sta vivendo non fosse mai accaduto. In un certo modo le fa eco oggi Vladimir (nome inventato), anche lui vive a Napoli, che espone la stessa dinamica, occupazione dei centri di potere del Donbass e imposizione di una guerra che nessuno voleva. Vladimir non può parlare, la sua famiglia è ancora là ma una cosa è chiara per lui: «L’Ucraina ha sbagliato perché nel Donbass c’è una guerra a tutti gli effetti e non una guerra contro terroristi. Ma gli interessi economici sono troppo alti e l’economia ucraina e russa sono interdipendenti, dichiarare una guerra avrebbe significato la mobilitazione nazionale, la chiusura dei confini e quindi perdere tutte quelle fabbriche e produzioni da ambo le parti»
Halya, come molte sue connazionali, all’inizio degli scontri si sentiva impotente, inerme davanti agli schermi, ma decisa nel voler fare qualcosa. Venne a conoscenza di un convento di suore a Mergellina per la raccolta di vestiti, di cibo e di beni di uso quotidiano da inviare in Ucraina, così ogni settimana vi si recava, come si recava al Vomero, dall’altra parte di Napoli, dai suoi datori di lavoro che le consegnavano beni di prima necessità. «All’inizio era faticoso, un giorno ho portato sei pacchi di pannoloni per diversi km, mi dovevo fermare per la stanchezza». Per «accorciare le distanze» decise di andare direttamente alla fermata dei bus dietro la stazione dei treni di piazza Garibaldi, dove partono tutti i pulmini per l’Ucraina. Halya indossa una maglietta nera con un cuore per metà giallo e per metà azzurro (i colori della bandiera ucraina), ha i capelli biondo platino, gli occhi scuri e lo sguardo deciso. Prende un cappuccino e ogni tanto tossisce, gli ultimi scampoli dell’influenza che l’ha debilitata. Mostra le foto sul suo cellulare: militari in trincea in Ucraina con dei disegni fatti dagli alunni della scuola ucraina di Napoli che lei ha inviato, altre di bambini in aula che disegnano. «Prima eravamo scoraggiati, la corruzione era dilagante in Ucraina, non sapevamo dove stava andando il nostro paese, la situazione nel Donbass ci ha unito, ha creato un senso di coesione sociale e nazionale che prima ci mancava».
LE FOTO
Scorrendo le foto appare Halya in trincea, mentre mescola un pentolone per il rancio delle truppe regolari o porge del cibo ad un cane per farselo amico nell’avamposto militare ucraino a un centinaio di metri dalla zona calda. Le foto scorrono, un semi bunker scavato con bandoni di ferro coperti dall’erba dove aveva dormito vestita, con le scarpe indosso, la valigia pronta ai piedi del letto e la macchina fotografica sulla pancia, perché «… sono le foto che ci rendono testimoni». Halya quella notte si alzò svegliata di soprassalto dalla soldatessa che le aveva concesso il suo letto per non lasciare che dormisse nel dormitorio dei maschi. Si sentivano rumori di carri armati e truppe in movimento al di là del confine. Alcuni dissero che non erano i separatisti ma le truppe regolari russe. Quando lo racconta il viso si contrae, impossibilitata a capacitarsi di come quest’invasione possa veramente essere accaduta. Halya è meticolosa, gira per Napoli per prendere i pacchi che le persone le consegnano e che poi dovranno essere spediti in Ucraina. Prima di andare alla stazione dei bus li apre, li fotografa e li posta su Facebook, in modo che quando arrivino a destinazione le persone che dovranno riceverli conoscano esattamente il loro contenuto. «Ci sono anche molti italiani che aiutano, dandomi giocattoli e vestiti per bambini».
ORFANI DI GUERRA
Halya scorre di nuovo il suo cellulare, mostra le foto di alcuni bambini in una casa a Kiev, sembrano felici, uno di loro gioca con un grande cartone facendolo diventare una casa. Sono gli orfani di guerra. «Ce ne sono molti, non tutti riescono a trovare un’altra famiglia», afferma sconsolata. Sono loro le maggiori vittime, è la stessa preoccupazione di Alexander Hug, che afferma su FP: «Nel 2014 un bambino che aveva 5 anni ora ne ha quasi 10. I suoi ricordi saranno solo di guerra, la sua testa piena di propaganda, non conosce come era la situazione prima del conflitto. Quando avrà 15 anni sarà un adulto che ormai non avrà legami con il passato. Questo creerà un conflitto/problema generazionale che sarà difficile da risolvere più della guerra». Pannolini, pannoloni, traverse, medicinali, vestiti, caffè, cibo in scatola … Halya mostra la foto di una sedia a rotelle che vorrebbe comprare per una soldatessa rimasta senza gambe. È più stretta del normale però sarebbe perfetta perché le barriere architettoniche in Ucraina sono all’ordine del giorno in strada come negli appartamenti. «Costa troppo, per il momento non possiamo permettercelo», dice con un velo di rammarico. La domenica mattina è sempre impegnata a portare i pacchi alla stazione dei bus, dove macchine e minivan partiranno per portali in Ucraina. Halya attraversa i corridoi sotto la stazione dei treni che porta a quella dei pullman. Oggi un pacco è pieno di vestiti per bambini, qualcuno indirizzato ad una madre era ancora incinta quando ha perso il cognato e suo marito che è scomparso nel 2014 quando era in trincea al confine con il Donbass e se ne sono perse le tracce. Sua figlia molto probabilmente non vedrà mai il padre. In un altro pacco ci sono giocattoli per bambini, un altro ancora cioccolatini e cibo. Halya entra nel supermercato dentro il complesso della stazione, va a comprare caffè da mandare ai soldati in prima linea, una dozzina di pacchetti che poi verranno smistati dai volontari in Ucraina. Questi ultimi sono l’altro anello di congiunzione con i bisognosi. Halya scrive i loro nomi sopra il pacco, accanto all’indirizzo delle persone a cui dovranno consegnarlo. Altri intermediari in questo viaggio della solidarietà sono gli autisti che minuziosamente mettono i pacchi su una bilancia ed Halya prende nota del peso da comunicare tramite Facebook ai volontari che lo riceveranno insieme alle foto dei pacchi. Proprio su Facebook esiste una rete in tutta Italia per aiutarsi a vicenda e coordinarsi per gli aiuti da mandare in Ucraina dalla Sicilia al Trentino, la rete è solo tra privati cittadini ucraini che vivono all’estero perché non ci sono Ong ufficiali per coordinare gli aiuti umanitari. Zoya e Sergej sono alcuni degli autisti che fanno avanti e indietro ogni fine settimana, insieme ad Halya impugnano orgogliosi la bandiera ucraina firmata dai soldati che Halya ha conosciuto in trincea. Impugnano la rabbia di tutte quelle vittime di una guerra per procura, dei soldati e dei civili che continuano a morire inutilmente al confine del Donbass mentre i vari governi occidentali rimangono sordi alla sofferenza umana a pochi chilometri di distanza. Sergej è spesso l’autista al quale Halya fa riferimento, ma non è l’unico. Difficilmente sorride, preferisce non essere intervistato, è troppo doloroso far riemergere il dolore per chi lo vede tutti i giorni dal parabrezza dell’auto. Tra circa 30 ore il viaggio avrà termine, i pacchi verranno consegnati e lungo il cammino di ritorno porterà un ennesimo carico di rimpianto e tristezza per un conflitto dimenticato.