Campo nero, caratteri cubitali arancione forte e, sulla sinistra dello schermo, una grossa zucca schiacciata che lentamente, davanti ai nostri occhi, riprende la rotondeggiante, turgida, forma originale e il sorriso minaccioso inciso nella sua polpa. Quarant’anni e nove sequel dopo, la dichiarazione d’intenti del nuovo Halloween, si legge già nei titoli di testa. Niente «vendetta», «ritorno» o «maledizione», niente che indichi che questo è l’undicesimo capitolo di una delle serie orrorifiche più note della storia del cinema. Halloween e basta: con un colpo di mano che è allo stesso tempo semplice e arditissimo, David Gordon Green torna alle radici del capolavoro di John Carpenter, spazzando via quattro decadi di exploitation minore, l’abominevole, pretenziosa, dietrologia psicologica di Rob Zombie e persino un detour alla Miramax di Harvey Weinstein.

NOME improbabile – almeno sulla carta – per il peso di quest’eredità grondante di sangue, il quarantatreenne regista di Little Rock è stato – da parte del produttore Jason Blum – una scelta saggia: nelle sale Usa a partire da ieri sera (in Italia il 25), Halloween anticipa già un week end da 70 milioni di dollari – pari cioè all’intero botteghino americano della versione carpenteriana, nell’anno dell’uscita, il 1978.

Autore che spazia con tranquilla facilità tra l’indie intimista (George Washington, Joe), la grossa commedia demenziale da studio (Pinapple Express, Your Highness), la serie televisiva e il melodramma (Stronger), Gordon Green condivide la sensibilità artigianale di Carpenter, l’approccio diretto/no frills, il gusto e la conoscenza del meccanismo drammatico e formale del cinema, e un’umiltà che viene da quell’antico riserbo americano oggi sempre più raro, artisticamente parlando. Come quella di Carpenter, la cinefilia di Gordon Green si rivela nella texture stessa dei film, non in chiave postmoderna, citazionista.

È QUEST’APPROCCIO che il regista ha portato ad Halloween e con cui, lui e Blum, hanno conquistato la complicità di Carpenter stesso – che per la prima volta ha accettato di essere creativamente coinvolto nella franchise. Insieme a suo figlio Cody e a Daniel Davies, il regista firma anche la colonna sonora del film, rielaborando di sonorità più ornate e pop il minimalismo indelebile del suo tema.

Pezzo fondamentale del puzzle, la presenza di Jamie Lee Curtis che, meno schizzinosa di Carpenter, si era lasciata immischiare in un paio di sequel. Anche nel suo caso tutto è azzerato. Sono solo loro due: Laurie Strode e Michael Meyers. Lui chiuso in un manicomio da cui stanno per trasferirlo, continua a non proferire parola. Lei, arroccata in una casa di legno trasformata in un fortino da survivalist, lo aspetta armata fino ai denti sulle macerie di due matrimoni, con una figlia che cerca di evitarla il più possibile e una nipote che riesce a vedere raramente. Come i due rivali storici in un western, né Michael ne Laurie sono cambiati molto. Anche se il volto serio e intelligente di Laurie è oggi coperto di rughe, i capelli tutti grigi sono pettinati come allora – persino la camicia e i blue jeans a zampa di elefante ricordano quella notte terribile, quarant’anni fa. Ma la qualità solitaria, malinconia e riflessiva, che la distingueva dalle amiche festaiole e sessualmente intraprendenti, è stata brutalmente deformata dal trauma.

FEDELE alla geniale intuizione carpenteriana, Gordon Green rispetta l’inafferrabilità di Michael (nei credits, come sempre è indicato come: the shape, la forma), quell’opacità che lo ha reso un mostro così terrorizzante. Una macchina per uccidere, indiscriminatamente. Fuggito durante il trasferimento, in una bellissima sequenza notturna che echeggia la fuga dal manicomio nella versione del 1978, Michael ha solo bisogno della sua vecchia maschera biancastra (di cui rientra in possesso grazie a due imbecilli inglesi che hanno cercato di intervistarlo per un pod cast sul true-crime), di una tuta blu da meccanico, di un paio di scarponi – il costume di un mostro a basso budget. Ed è di nuovo «il male», libero per la strade di Haddenfield, la notte di Halloween.

Gordon Green adotta alcuni stilemi e alcune immagini precise dal film di Carpenter (in particolare e con successo, quel modo di apparire e sparire dalle superfici e dagli angoli dell’inquadratura, tipico di Michael, che rende fantasmatica la sua presenza). Ma il suo è un cinema diverso, più materico. Meno istintivamente elegante e concettuale. Il suo fotogramma è più pieno di quello carpenteriano (in cui la paura aleggiava metafisicamente in ogni angolo, nei luoghi più innocui), i suoi movimenti di macchina (che riprendono quelli morbidi della Panaglide) sono più brevi. Ma questo Halloween è l’erede migliore che si possa immaginare per il suo insuperabile modello. Intelligente, efficace, ben fatto, pieno di idee, violentissimo e terrorizzante.