La festa di Halloween, che cade la notte del 31 ottobre e il cui simbolo è la zucca, coi propri travestimenti e processioni non è distante da talune tradizioni italiane, specialmente meridionali, che hanno luogo nel periodo dei Morti. È lecito supporre che questi rituali siano stati esportati dai nostri emigrati meridionali, abbiano incrociato tradizioni similari, ad esempio quella irlandese giunta anch’essa negli Stati Uniti, e poi, per una sorta di «eterno ritorno dell’uguale», siano ritornati nel nostro Paese seppur in termini e forme diversi. Tali differenti tradizioni, difatti, si sono amalgamate secondo quanto avviene nelle modalità culturali, che non rimandano mai alla purezza primigenia di un’unica cultura.

Tuttavia, l’usanza di svuotare una zucca, ricavarne occhi e tratti propri del volto umano e porvi all’interno una candela, risale indubbiamente al periodo della migrazione del nostro popolo meridionale in America. Un format spettacolare goliardico, effimero, da villaggio globale con un giro di affari di milioni di euro che, tuttavia, non sconfessa l’effettiva natura di veglia funebre. Dal punto di vista antropologico, ogni società ritualizza solennemente il rapporto con la morte e ne stabilisce una sorta di comunicazione trasformando la morte da fatto personale a dramma collettivo. Rituali metastorici sono presenti dalla Sicilia alla Calabria, dalla Lucania alla Campania: l’adepto, attraverso lo «scambio simbolico» fatto di gesti, invocazioni, fiori, cibi e soprattutto dolci devozionali, si ricongiunge al mondo dei morti. Un fil rouge che lega le zucche ai teschi della Napoli sotterranea.

Attraversando, invero, il centro storico di Napoli, si nota subito la forte presenza di un’infinità di edicole votive sotto cui, scavate nella pietra di tufo, ci sono piccole cavità, i «Purgatori», contenenti statuine di creta a mezzo busto avvolti dalle fiamme, in atteggiamenti d’estatica teatralità. Significanti di un’antica devozione verso le anime dei morti anonimi, il cui culto è professato tutto l’anno. Sono le Anime del Purgatorio, spiriti dolenti che occupano le viscere del sottosuolo, dell’underground partenopeo, oggetto di un culto arcaico che ha lambito e tuttora lambisce il cuore della religiosità popolare napoletana, la cui pietas consacra al culto dei morti: quella dei propri cari estinti ma anche, e soprattutto, quella della collettività delle anime abbandonate dell’aldilà. Sono morti di morte violenta, spesso non sepolti: appestati, giustiziati, assassinati. La pietas popolare si prende cura di questi crani ignoti, identificandoli con le Anime del Purgatorio, chiamate anime pezzentelle o capuzzelle e che popolano gli ipogei di alcune chiese del centro storico: Santa Maria del Purgatorio ad Arco detta anche ’a cchiesa d’ ’e cap’ ’e morte, San Pietro ad Aram, costruita su un tempio paleocristiano dove San Pietro avrebbe convertito Santa Candida e dove secondo la leggenda ella avrebbe vissuto, il cimitero delle Fontanelle ubicato nel rione popolare della Sanità.

Questa è una delle forme di devozione più praticata dai napoletani sia perché, come dicono gli anziani, sono come noi, sono noi, sia perché la vita terrena dei meno abbienti è sempre stata un purgatorio, un’interminabile godotiana attesa. Transfert, identificazione, proiezione col culto più remoto: quello dei morti. Eppure, in una società capitalista inneggiante al consumismo più sfrenato e al falso benessere, la morte raffigura l’antinomia assoluta. L’ineluttabile «verità» che va ignorata ad ogni costo e rigettata in tutte le forme e manifestazioni. Non a caso Pier Paolo Pasolini, nell’accostare Napoli a una tribù che rifiuta la società consumistica, ha scritto: «I napoletani oggi sono una grande tribù che, anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Boja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti, la modernità. È un rifiuto, sorto nel cuore della collettività; una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto, questa negazione alla storia è giusto, è sacrosanto». Napoli, metropoli di confine, liminare e piena di contraddizioni, tenta di conservare più di altre le tracce dell’arcaico e difficilmente censura, rimuove – anche in termini psicoanalitici – la distanza, il contatto con la malattia e la morte. Il permanere sino ad oggi di antichi rituali e tradizioni ne fa, invero, l’unica metastorica città/luogo per un possibile dialogo, comunicazione e interscambio tra il mondo dei vivi e quello dei morti (come ha ricordato Totò, con il suo genio, in ’A livella).

Il giorno rituale dedicato a tale culto è principalmente il lunedì, che fin dall’antichità era il giorno consacrato alle divinità del sottosuolo e in particolare a Ecate, la dea lunare del regno degli inferi. Fino a pochi anni fa, la discesa agli ipogei permetteva di assistere a un’invocazione corale di grazie consistenti, nella maggior parte dei casi, in richieste di ottenere guarigioni, di trovare lavoro o di sposarsi, nel caso delle devote. Il mondo antico immaginava lo spazio dei confini; il limen, una zona posta fra noto e ignoto, tra luce e oscurità, tra pagano e cristiano, tra sonno e veglia – come si rivelano gli ipogei delle chiese di Santa Maria del Purgatorio ad Arco e San Pietro ad Aram o il cimitero delle Fontanelle -, diventa luogo di flusso, di passaggio, di comunicazione possibile tra vivi e morti, tra memoria e oblio, fra devoto e anima prescelta, per de-tabuizzare, appunto, la fobia della morte.

Ogni luogo ha una o più figure considerate importanti, che s’identificano con una storia mitica che ne crea il culto, la leggenda. Il culto dell’anima pre-scelta prevede: accensione di ceri, preghiere, pulitura del cranio detta ’o refrisco; crani collocati in cassettine di compensato dette scaravattole e adagiati su cuscini di stoffa rossa. Nell’immaginario collettivo tali figure sono presenze misteriose e soccorrevoli che occupano le viscere – corpo e psiche – di Partenope/Neapolis. La gestualità consiste nel toccare le mura, baciare le nicchie, pulire e lucidare le capuzzelle, accendere lumini, portare i fiori, farsi il segno della croce e recitare litanie. Tra le anime oggetto di culto spiccano Lucia, il Dottore, il Monaco, Santa Candida, la Sposa, il Giudice, ’a Capa rossa, Luciella la zingara, il conte e la contessa Carafa, Pascale ’o Marucchino. A Napoli, il sotterraneo appartiene all’immaginario collettivo che crea un reciproco scambio tra codici spaziali e codici temporali; il rituale pro defunctis diventa mezzo di continuità per il post mortem. Per dirla con l’antropologo Louis-Vincent Thomas, s’è avuto un «impoverimento della linguaggio tipico della morte, restringersi del campo simbolico, rifiuto dei riti, elusione del lutto, incertezze delle credenze confortanti, è questo il segno (o l’effetto) dello smarrimento che l’uomo occidentale prova oggi. Non poteva essere altrimenti visto che il “potere” vince sul “senso”, il profitto sul rispetto della persona, la paura della morte sulla gioia di vivere. Finché il valore di scambio prevarrà a scapito del valore d’uso, l’uomo resterà incapace di ben vivere come di ben morire».