Tanti, tantissimi libri sono stati scritti sulla vicenda di Jack lo squartatore, killer seriale ante litteram che saziò la sua sete di sangue e violenza nei luoghi più oscuri e malfamati della Londra vittoriana. Plotoni di autori hanno provato a dare un volto a un criminale la cui vera identità rimane ancora misteriosa.

Nessuno, però, aveva mai raccontato nel dettaglio la triste storia delle sue cinque vittime. Per fortuna la storica britannica Hallie Rubenhold ha colmato questo vuoto con un’opera preziosa quale «Le cinque donne – la storia vera della vittime di Jack lo squartatore», pubblicata da Neri Pozza. Documenti alla mano, la Rubenhold ha ricostruito in maniera dettagliata e puntigliosa la vita di Polly Nichols, Annie Chapman, Elisabeth Stride, Kate Eddowes e Mary Jane Kelly. Una vera e propria opera di debunking, soprattutto della pletora di bufale di cui era infarcita la stampa dell’epoca. L’obiettivo primario dei mezzi di informazione era costruire una precisa narrativa sulle «donne perdute» che in un certo qual modo «se l’erano cercata». Bastava aggiungere qualche dettaglio «posticcio», amplificare a dismisura e in maniera maliziosa qualche dichiarazione dei parenti e dei testimoni o spingersi fino a inventarsi di sana pianta fatti mai accaduti che il gioco era fatto: dipingendo le cinque poverette come delle prostitute, la loro morte orrenda poteva sembrare «un po’ meno indigesta» all’opinione pubblica.

Ci fu chi, come l’alto funzionario del Colonial Office Edward Fairfield, prese carta e penna e scrisse al Times per affermare che quella inflitta da Jack lo squartatore fosse una giusta punizione a donne dissolute e che non rispettavano i rigidi precetti della società vittoriana, preoccupandosi di come tutto il trambusto provocato dalla vicenda avrebbe portato masse di miserabili spaventati a invadere i sacri confini dei quartieri dell’alta borghesia.

La Rubenhold è magistrale nel narrare il contesto sociale così polarizzato della Londra allora capitale di un impero sconfinato: da una parte l’élite ricca e potente che disprezzava la working class, fatta eccezione per una porzione di riformatori impegnati in opere di bene ma non in un reale stavolgimento di un sistema iniquo, in cui «la caduta morale equiparava una poveretta senza casa a una prostituta». Sì, perché l’autrice dimostra quasi senza ombra di dubbio che Polly, Annie e Kate non vendevano il loro corpo per soldi, ma per una serie di circostanze sfavorevoli si ritrovarono a dormire spesso all’addiaccio nei vicoli del malfamato East End londinese. Elisabeth si era dovuta prostituire per necessità in gioventù, ma non esercitava più al momento della sua uccisione.

L’unica sulla quale il racconto dei giornale rispondeva a verità era Mary Kelly, che rimane per tanti versi un personaggio misterioso, di cui si ignora ancor oggi se fosse irlandese o gallese e che la Rubenhold ipotizza potesse non essere figlia della classe operaia.

Il filo rosso che legava almeno le prime quattro vittime erano le tremende condizioni di vita a cui andavano incontro le donne che non avevano la fortuna di nascere nella bambagia: alloggi precari, pessime condizioni igieniche, paghe da fame, gravidanze continue che fiaccavano corpi già indeboliti. In tante, comprese le nostre cinque, finivano per trovare nello stordimento causato dall’abuso di alcol l’unico rifugio da un mondo orrendo, in cui era accettabile picchiare le donne, e una serie di efferrati femminicidi fece raggiungere a Jack «The Ripper» lo status di uno degli anti-eroi più famosi della storia.