Diversi viaggi in Unione Sovietica, a partire dagli anni Trenta, furono necessari a Halldór Laxness, cui venne consegnata nel 1952 la Medaglia Stalin per i meriti artistici, prima che perdesse la «fede» socialista, lui che in gioventù era stato fervente cattolico, e cominciasse a rivolgere un interesse non superficiale allo studio del taoismo. Fiero avversario di tutte le declinazioni del progresso tecnologico e urbanistico che vedeva proliferare ovunque attorno a sé (Laxness fu un instancabile viaggiatore), lo scrittore islandese esibiva volentieri nei suoi romanzi uno schietto rimpianto della vita rurale, spesso con richiami diretti alle sue origini contadine.

Alla luce di queste due premesse – l’inquieta ricerca spirituale e il dichiarato scetticismo nei confronti della modernità – può sembrare sorprendente che si intuisca tra le pagine eleganti dei romanzi di Laxness una sottile, ma visibilissima, vena satirica; una vena imparentata con l’umorismo presente anche in altri grandi scrittori scandinavi del Novecento, sebbene a volte attraversata da una certa cupezza – per esempio nel caso del Knut Hamsun di La città di Segelfoss, che in alcune pagine sembra persino rivoltarsi contro i suoi personaggi. Indirizzata scopertamente a se stesso, l’ironia di Laxness in Il paradiso ritrovato (traduzione di Alessandro Storti, Iperborea, pp.352, € 19,00) è ancora più godibile perché accompagnata dalla evidente compassione che il narratore onnisciente, prediletto dallo scrittore islandese, nutre nei confronti dei suoi personaggi.

Il male è nel denaro
Si incontrano, in questo romanzo del 1960, alcuni elementi fondamentali che ricorrono anche nei due capolavori scritti da Laxness prima della disillusione ideologica, a cominciare dalla posizione dei personaggi rispetto alla storia: come per l’indimenticabile Bjartur, il fattore di Gente indipendente (1934), e per il contadino in fuga, accusato di aver assassinato il boia in La campana d’Islanda (1943), la tragicomica serie di eventi non necessariamente di ordine realistico che si abbatte sulla famiglia di Steinar, il protagonista del Paradiso ritrovato, chiama in causa e capovolge allo stesso tempo la figura dell’eroe epico.

Secondo libro pubblicato da Laxness dopo avere vinto il Nobel per la letteratura nel 1955, Il paradiso ritrovato non ha la forza narrativa di Gente indipendente né la complessità linguistica della Campana d’Islanda, e si affida prevalentemente ad atmosfere favolistiche, che contribuiscono a smorzare una trama ai limiti dell’improbabile. Siamo al tempo del regno di Cristiano IX di Danimarca, nella seconda metà dell’Ottocento, quando, dice il narratore, «gli islandesi erano noti per essere il popolo più indigente di tutta Europa». Steinar incarna i valori dell’Islanda premoderna, legata agli elementi della natura e dell’antico tramandarsi delle saghe popolari: è contadino, artigiano del legno e della pietra, poeta. Il suo portentoso cavallo, concupito dal potentato locale, è avvolto in una sorta di aura magica che i suoi figli gli hanno attribuito, e per questa ragione egli resiste all’idea di venderlo per ricavarne il denaro che pure sarebbe necessario al sostentamento della famiglia.

Canzonato dai suoi concittadini, che gli ricordano come «Sigfrido se n’è andato all’altro mondo da un bel pezzo», si convince che l’animale meriti un altro destino, e approfittando di una visita ufficiale nella regione, ne fa dono al suo re. Il sovrano, però, si impone a sua volta perché sia corrisposto un pagamento al villico, il quale non riesce così a sottrarsi al mercimonio, disprezzato da lui e da sua moglie, secondo la quale il denaro incarna «tutto il male del mondo».

Questa vicenda non è che una sorta di lungo preambolo romanzesco: Steinar, deluso, parte per Copenaghen per visitare il suo cavallo, e porta con sé un curioso manufatto barocco da lui costruito (uno scrigno-allegoria che si può aprire solo con una chiave «poetica»). È l’inizio di una avventura che lo porta prima alla corte di alcuni sovrani europei, e poi ad abbandonare la famiglia in cerca di una «terra promessa», che sembra spalancargli le sue porte quando un predicatore mormone, già incontrato in Islanda, gli propone di seguirlo negli Stati Uniti, convincendolo con le parole che il villico finalmente sente più vicine: «Solo l’uomo che si spoglia del tutto diventa mormone».

Mentre Steinar si avvia a una nuova e più cocente disillusione – e a un grottesco incontro con la pratica della poligamia, raccontata con toni che esasperano il contrasto tra l’ingenuità di Steinar e gli eventi che a sua insaputa avvengono dall’altra parte dell’oceano – alla famiglia rimasta in Islanda accadono tutte le disgrazie possibili: preda dei traffici dell’oscuro Björn, personaggio-incarnazione di ogni immoralità, dagli echi shakespeariani, i contadini perdono ogni bene e la piccola figlia di Steinar perde l’innocenza.

Nello Utah mormone
Gran cercatore di senso, Laxness aveva visitato egli stesso lo Utah dei mormoni negli anni cinquanta e ne aveva ricavato il materiale utilizzato per Il paradiso perduto, che risulta tanto stravagante da un punto di vista compositivo e narrativo quanto preciso nel rivelare il suo obiettivo: realismo e allegoria, satira e epica, si intrecciano con inconfondibile riconoscibilità stilistica attorno alla tensione irrisolta dell’uomo tra aspirazioni ideali e grovigli mondani. Come fa notare a metà libro il narratore, «Salt Lake City è una città dove la verità si presenta a tratti un po’ tortuosa».