«Non sono bravo a fare pronostici. Ero sicuro che con la crisi finanziaria del 2008 il mercato sarebbe crollato, rivoluzionando il mondo dell’arte. Mi sbagliavo. Ero certo che dopo il movimento Occupy i direttori dei musei avrebbero riconsiderato l’eccessiva dipendenza delle loro istituzioni dal mecenatismo dei plutocrati. Mi sbagliavo ancora. (…) Quindi, per favore, non chiedetemi cosa accadrà all’artworld se e quando il Covid-19 allenterà la presa. Non ne ho la più pallida idea».
Così, la scorsa primavera, Hal Foster (1955) presentava su «Literary Hub» il suo nuovo lavoro, What Comes After Farce? Art and Criticism at a Time of Debacle (pp. 224, Verso, sterline 18.99). Quasi giustificandosi. In effetti, già all’indomani del lancio, la rapida propagazione della pandemia aveva minato il libro nel suo tacito assunto che, per chi sa capirla, l’arte è profetica.
Il titolo dell’opera riprende una famosissima frase di Marx tratta da Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852), secondo cui la Storia si ripete sempre due volte: dapprima come tragedia, poi come farsa. E, si chiede Foster, cosa viene dopo la farsa? Ovvero, nell’attuale condizione di emergenza permanente, in un «regime di guerra, terrore e sorveglianza» in cui nulla è garantito e tutto è lotta, quali chance ci sono di sopravvivere e creare arte? Come devono comportarsi artisti e intellettuali nel momento in cui la legge (artistica, sociale o politica) viene distorta e applicata arbitrariamente? Foster rintraccia le origini di questa situazione al settembre 2001; da allora si continua a vivere in un mondo in cui lo stato di diritto viene frequentemente sospeso e a volte apertamente violato in nome di un’indiscutibile ragione superiore. Il virus ha solo reso tutto ciò più evidente.
Nonostante il fosco scenario, Foster sceglie di essere, alla stregua di Antonio Gramsci, un «ottimista della volontà» e auspica che la crisi possa rivelarsi un interregno, un buffo preludio di quella che lui definisce la débâcle: ossia, un improvviso scoppio di energia dirompente ma non per forza nociva. La débâcle – dal francese débâcler, che in senso stretto allude al disgelo e a fenomeni come l’aprirsi di crepe sulla superficie ghiacciata di specchi o corsi d’acqua – sarebbe dunque l’opportunità di cambiare finalmente convenzioni, istituzioni e leggi.
Nel libro, lo studioso americano raccoglie diciotto brevi saggi – «bollettini» li chiama –, molti dei quali scritti e apparsi sulla «London Review of Books» e altre riviste in un arco di tempo che va dalla crisi del 2008 alla «catastrofe perpetua» personificata da Donald Trump. Il volume è suddiviso in tre sezioni: la prima (Terror and Transgression) ha una chiara connotazione anti-republican e insiste su uso e abuso di concetti quali il trauma, la paranoia, il kitsch. Se un tempo l’avanguardia rintuzzava l’azione oppressiva della legge ridicolizzandola, in seguito quella carica corrosiva si è purtroppo definitivamente esaurita con l’avvento della Pop art. Non solo. Le pratiche estetiche formali che negli anni novanta potevano apparire ancora virtuose sono state presto fagocitate dal mercato, al punto che con artisti come Jeff Koons, ad esempio, si è arrivati all’esaltazione retorica di valori oramai funzionali all’ideologia neoliberista: «credere in sé stessi», in quanto merce semilavorata, e coltivare la propria «autostima» di capitale umano sempre pronto a sviluppare nuove competenze passando da un lavoro precario a un altro.
Pertanto, in un universo artistico dissociato tra routine trasgressiva e vigilanza etica, come demistificare o parodiare un ordine egemonico che non ha pudore delle proprie oscenità e contraddizioni, e sa volgere a profitto le strategie culturali dei suoi oppositori? Dunque, «l’ermeneutica del sospetto», il metodo critico basato sull’idea che la realtà sia nascosta o sepolta e possa essere svelata, a questo punto serve a poco. La critica all’ideologia ha finito per insinuare il dubbio che il critico volesse solo attribuirsi autorità; non a caso molta arte postmodernista ha rigettato tale autorità, anche se così facendo è dovuta sconfinare nel nichilismo.
E «se tutto ciò suona terribile, ebbene lo è».
La seconda parte (Plutocracy and Display) passa in rassegna le metamorfosi delle istituzioni culturali nei tre lustri presi in esame. Foster sottolinea che tanto il circuito commerciale dell’arte quanto il museo si sono espansi in modo impressionante, abbracciando gli imperativi presentisti dello spettacolo e dell’ostentazione. Dal 2000 sono comparsi più di duecento musei privati, e ciò che l’autore giudica inquietante in questa proliferazione è che tali monumenti all’opulenza neoliberista sono stati per lo più concepiti da architetti dichiaratamente progressisti e poi riempiti con opere di artisti altrettanto progressisti. Per denaro, ovviamente.
Mentre agli albori della pratica nota come «critica istituzionale», Robert Smithson affermava la necessità che l’artista conoscesse a fondo il sistema nel quale era invischiato per contestarne il funzionamento, oggi molti artisti sono fin troppo felici di lasciarsi cooptare, magari fingendosi riluttanti, con l’avvallo di curatori compiacenti.
Infine, il terzo gruppo di «bollettini» (Media and Fiction) ripercorre l’evoluzione tecnologica dei media così come si è manifestata nella videoarte, nella fotografia e nei film degli ultimi anni. Tra le questioni affrontate vi sono la «visione artificiale» (immagini prodotte da macchine per altre macchine senza mediazione umana), le «operational images» (immagini che non mostrano il mondo ma intervengono concretamente in esso) e lo scripting algoritmico delle informazioni, parassita virtuale della quotidianità on line. Del resto, il concetto di autorità è stato comunque reintrodotto, nonché potenziato tramite il pathos di «rappresentazioni traumatofile del reale», attraverso la prospettiva più o meno artificiosa del soggetto quale testimone o sopravvissuto di un evento traumatico. Come confutare questa autorità? Tale potere, infatti, è in grado di nascondere del tutto o in parte crimini e/o catastrofi: guerre segrete, attacchi con droni, genocidi, occupazioni territoriali, disastri ambientali, abusi sui rifugiati, ecc.
Per Foster, autori come Harun Farocki o Hito Steyerl hanno dimostrato che, non essendo più possibile squarciare il velo della finzione ideologica, occorre ricostruire per mezzo della rappresentazione una realtà occlusa o addirittura assente. «La bugia descrive la mia vita meglio della verità». Questa strategia è una risposta al controllo esercitato da multinazionali e governi su ciò che in prima istanza conta come realtà. Affascinante.
Disgraziatamente, però, la natura composita di What Comes After Farce? non è priva di pecche: l’ampiezza di prospettiva prevale sulla profondità di analisi, così che artisti e teorici (Paul Chan, Claire Fontaine, Hans Ulrich Obrist, Sarah Sze, Giorgio Agamben, Walter Benjamin, ecc.) convocati da Foster a confermare le proprie tesi si assembrano in un mosaico che trasuda disapprovazione senza però mai suggerire contromisure. Ancora una volta, Foster dà prova di essere un perspicace indagatore della scena artistica contemporanea – di cui lui stesso è parte e che contribuisce a plasmare, per sua fortuna senza dover passare da un lavoro precario all’altro. Ancora una volta riesce a cogliere e descrivere con prosa elegante tematiche e sommovimenti del volubile panorama culturale. Ma ancora una volta appare più preoccupato di distinguere i bravi dai meno bravi, secondo il suo metro di giudizio e secondo una visione saldamente centrata sugli Stati Uniti. Quella di Foster, osserva Kevin Brazil sulla «London Review of Books», non è una critica che aspira alla dignità di opera d’arte, ma una per la quale l’arte migliore è quella che aspira alla critica.