Sono arrivate a quasi 1.300 le vittime del terremoto di magnitudo 7.2 che si è registrato sabato ad Haiti, a circa 12 chilometri a nord-est di Saint-Louis du Sud. Un bilancio destinato ad aumentare: ancora migliaia i dispersi, mentre le operazioni di soccorso proseguono in tutto il territorio.

Molto gravi anche i danni alle infrastrutture, compresi gli ospedali delle località di Jérémie e Les Cayes, nella zona sudoccidentale del paese, quella più devastata.

MA LA SITUAZIONE potrebbe ulteriormente aggravarsi con l’arrivo del ciclone Grace, per fortuna declassato dal Centro nazionale degli uragani della Florida da tempesta a depressione tropicale, con venti fino a 55 km/h e forti piogge.

«Vicinanza» alle popolazioni colpite è stata espressa domenica da papa Francesco, che ha auspicato che «si muova l’interesse partecipe della comunità internazionale», affinché «la solidarietà di tutti possa lenire le conseguenze della tragedia».

Solidarietà che, attraverso l’invio di esperti e di beni di prima necessità, al momento non manca da parte di organismi internazionali, ong e governi, a cominciare da quelli messicano e venezuelano (oltre alla Brigata medica cubana già attiva nel paese).

GIÀ SABATO il primo ministro di Haiti, Ariel Henry, ha proclamato lo stato d’emergenza per 30 giorni, invitando la popolazione a non cedere al panico e a dar prova di solidarietà. In carica da meno di un mese e già alle prese con la difficile congiuntura politica successiva all’assassinio, il 7 luglio, del presidente Jovenel Moïse, il neo premier si trova a far fronte a una nuova e drammatica crisi umanitaria.

Un altro colpo durissimo per un paese che non si è mai del tutto ripreso dal catastrofico terremoto del 2010, in realtà meno violento di quello di sabato, ma più devastante in termini di vittime (oltre 200mila) e di danni.

UN PAESE CONTRO cui sembra essersi abbattuta una maledizione, tenendo conto anche dei danni provocati dall’uragano Matthew del 2016, dall’epidemia di colera causata dalla negligenza delle truppe Onu (oltre 800mila contagi e circa 10mila morti) e – benché in compagnia di tutto il pianeta – dal Covid-19.

Il tutto è reso più drammatico dalla permanente instabilità politica e sociale legata a un succedersi di dittature, colpi di Stato (tristemente celebre quello nel 1991, con la benedizione Usa, contro Aristide, ex sacerdote salesiano schierato su posizioni anti-oligarchiche e anti-imperialiste) e governi corrotti. Ma, ancor di più, a una serie nefasta di interventi internazionali, che si tratti delle truppe Onu, del Core Group (il gruppo degli «amici di Haiti» di cui Usa e Ue fanno parte insieme ad altri paesi) o del Fondo monetario internazionale, colpevole, tra molte altre cose, di aver distrutto la sovranità alimentare del paese.

ED È ANCORA TALE intervento internazionale a caratterizzare il prima, il durante e il dopo omicidio Moïse. Prima, con il sostegno del Core Group al presidente de facto inviso alla popolazione.

Durante, con il coinvolgimento nell’assassinio di cittadini e realtà di diversi paesi: i mercenari implicati nell’omicidio sono in maggioranza ex militari colombiani che sarebbero stati assunti da una compagnia statunitense con sede a Miami, la CTU Services, di proprietà dell’oppositore venezuelano Antonio Intriago (ma nella partita entrano anche Repubblica Dominicana, come paese di transito di persone e armi, e Taiwan, nella cui ambasciata si erano rifugiati 11 dei mercenari arrestati).

E infine, dopo il crimine, con l’appoggio prima al premier uscente Claude Joseph e poi, di fronte ai sospetti di una sua partecipazione all’omicidio, ad Ariel Henry, espressione, anche lui, di quell’establishment che domina il paese dal secondo golpe contro Aristide nel 2004, di cui lui stesso è stato tra i protagonisti.