Nel silenzio pressoché completo della comunità internazionale, la rivolta del popolo haitiano è entrata lunedì nell’ottava settimana consecutiva di proteste contro il governo di Jovenel Moïse, durante le quali hanno già perso la vita, secondo le stime dell’Onu, 42 persone, benché fonti locali parlino in realtà di decine di morti al giorno e di una violenza divenuta incontrollabile.

MA È ADDIRITTURA DALL’ESTATE del 2018 che, tra interruzioni e riprese, i discendenti degli schiavi neri a cui si deve la creazione della prima Repubblica libera del continente sono sul piede di guerra. Allora, nel luglio del 2018, la popolazione era insorta contro l’aumento del 50% del prezzo dei carburanti richiesto dal Fondo monetario internazionale, provocando la rinuncia del primo ministro Jack Guy Lafontant e il ritiro del provvedimento.

Quindi, nell’autunno del 2018, il popolo era tornato in piazza in tutto il paese contro la distrazione operata dalla classe politica di oltre tre miliardi di dollari dal fondo Petrocaribe (il programma solidale lanciato nel 2005 dal governo Chávez per distribuire petrolio all’area caraibica): un affronto per un paese in cui, secondo la Fao, il 49% della popolazione non riesce a nutrirsi ogni giorno. E la ribellione era di nuovo esplosa il 7 febbraio scorso, nel secondo anniversario dell’insediamento presidenziale di Moïse (il quale peraltro era stato eletto con appena il 7% dei voti), e poi ancora a giugno, trasformandosi da una protesta anti-corruzione in una rivolta mirata esplicitamente alla rinuncia del presidente.

L’ULTIMO ROUND, forse quello decisivo, è iniziato appunto 8 settimane fa, in seguito alla crisi del combustibile, che, pur riconducibile in parte all’embargo imposto dagli Stati uniti al Venezuela (che ha ostacolato l’arrivo ad Haiti di combustibile a condizioni agevolate) rispondeva a un disegno dello stesso governo Moïse, in cerca di una nuova giustificazione per l’eliminazione dei sussidi statali e l’aumento del prezzo dei combustibili, come aveva tentato invano di fare già nel 2018. Da allora, come riferisce Camille Chalmers, forse il leader popolare più importante del paese, la protesta non ha fatto che intensificarsi, «con milioni di persone per le strade» e barricate in tutto il paese.

 

Proiettili raccolti in una strada di Port au Prince al termine di una giornata di proteste (Afp)

 

Mentre, nel frattempo, la povertà e la violenza dilagano, i rifiuti si accumulano per le strade, il cibo scarseggia, la benzina è arrivata a 11 dollari al litro e la gente – che sopravvive, con estrema fatica, solo grazie alle rimesse degli immigrati negli Stati uniti – evita di uscire in strada per sfuggire alla repressione della polizia, diretta soprattutto contro i quartieri popolari, o alla violenza delle gang. E con un paese totalmente paralizzato, un’attività economica praticamente ferma e un governo che ha smesso di governare già da tempo, il presidente Moïse si rifiuta ostinatamente di dimettersi, affidandosi, secondo quanto rivelano fonti locali, alla protezione di 12 mercenari Usa pagati ciascuno 3.200 dollari al giorno.

Ma né il sostegno della maggioranza di un parlamento parimenti screditato, né, soprattutto, l’appoggio degli Stati uniti, della Francia e del Canada basteranno ad assicurargli ancora a lungo la permanenza al potere, soprattutto considerando che, di fronte alla paralisi dell’economia, persino gli imprenditori gli hanno voltato le spalle. Se gli Usa non l’hanno ancora scaricato, del resto, è solo perché, come spiega ancora Chalmers, non sanno con chi sostituirlo, essendo tutti gli esponenti di destra papabili implicati nello scandalo di Petrocaribe.

E DI CERTO GLI STATI UNITI non possono rischiare che a guidare la transizione siano le forze popolari e di sinistra, le quali, riunite nel Foro Patriottico, in questo arco di tempo sono andate organizzandosi e consolidandosi attorno a un programma che prevede, tra l’altro, le dimissioni del presidente e dei parlamentari, il processo ai corrotti, un governo di transizione, un piano d’emergenza contro la crisi e una riforma politica ed elettorale, con l’obiettivo di ripristinare il controllo del territorio, restaurare l’ordine e la pace e recuperare la stabilità economica.
Un programma a cui è chiamato a dare continuità un comitato più ristretto costituito da due rappresentanti del movimento sindacale, una dei movimenti femministi, una del movimento dei giovani delle periferie e quattro esponenti dei partiti politici, due della sinistra rivoluzionaria e due socialdemocratici. «Vogliamo che questa transizione non sia controllata dagli Stati uniti – dichiara Chalmers – ma che esprima una rottura, aprendo realmente una prospettiva di cambiamenti radicali a livello dell’economia e del sistema politico».