Nel 1989 prendeva il via nell’estremo nord dell’arcipelago nipponico, la prima edizione del Yamagata International Documentary Film Festival. Creato per volontà di Shinsuke Ogawa che con il suo collettivo a fine ’70 si spostò dalla resistenza per la costruzione dell’aeroporto di Narita, nella zona di Yamagata, il festival negli anni, soprattutto nell’ultimo decennio del secolo scorso, ha rappresentato un centro culturale per l’arte documentaria asiatica. Primo nel suo genere in Asia, l’evento ha contribuito alla nascita di altri festival, il Taiwan documentary film festival fra gli altri, ed ha funzionato anche come polo attrattivo per la nuova ondata di registi asiatici che si sono imposti in un periodo cruciale per la zona, il periodo di democratizzazione dell’arte con l’avvento del digitale, in Cina ma anche a Hong Kong e nel Sud Est asiatico più in generale.

Quest’anno il festival, conclusosi da qualche giorno, ha quindi compiuto 30 anni e anche se il fervore e la spinta culturale non è più quella dei primi 15-20 anni, rimane un evento culturale di notevole interesse. Svolgendosi ogni due anni, non è certo la competizione principale quella più interessante – hanno vinto l’edizione 2019 nomi importanti ma già visti in altri festival, come Montovia, Indiana di Wiseman e il fluviale Dead Souls di Wang Bing. Notevole e forse uno dei film più potenti visti in questa edizione in competizione è Reason dell’indiano Anand Patwardhan, quattro ore che sondano la storia del nazionalismo induista dall’assassinio di Ghandi fino ai giorni nostri. Di tutt’altro genere ma altrettanto affascinante è stata la visione dello sperimentale Memento Stella del giapponese Takashi Makino, radicalmente sperimentale nel mettere in immagini, quasi un Jackson Pollock in movimento, le trasformazioni della materia del nostro pianeta.

MA LE SEZIONI forse più interessanti sono state quelle parallele, soprattutto quelle dedicate al cinema documentario dell’Oceania e del cinema di non-fiction giapponese del periodo pre bellico. «AM/NESIA Forgotten ’Archipelagos’ of Oceania» ha messo insieme un programma di film che hanno esplorato un continente molto spesso dimenticato e più volte colonizzato da europei e americani. Nel percorso che ha unito documentari di propaganda girati dall’impero giapponese negli anni ’30 come Lifeline of the Sea (1933) in Micronesia, e lavori più moderni che sondano la storia di violenza sulle donne del luogo nel periodo bellico (Senso Daughters), si è delineato un quadro complesso della colonizzazione fisica e mentale della zona perpetrata per decenni. Una colonizzazione che ha colpito anche i corpi, imponendo un sistema di identità binario occidentale, maschile-femminile, quando in alcune isole tra cui le Hawai’i esistevano almeno tre gender, come raccontato nel documentario Kuma Hina.

IL PROGRAMMA «The Creative Treatment of Grierson in Wartime Japan» ha invece approfondito i primi passi dell’arte documentaria in Giappone, allora chiamata bunka eiga (film culturali), dagli anni venti del secolo scorso fino al periodo bellico. Fortemente influenzata dagli scritti di Paul Rotha e dagli stimoli provenienti soprattutto dal Regno Unito, la sezione ha presentato alcuni documentari giapponesi accostandoli ad altri formalmente simili prodotti in Inghilterra come Night Mail (1936) e Coal Face (1935).

Esperimenti con il suono e con la percezione del reale seguendo di volta in volta piste poetiche o più fortemente sociali, fra questi lavori quello che ha più colpito chi scrive è stato sicuramente Kobayashi Issa di Kamei Fumio (1941), commissionato dall’agenzia turistica di Nagano per pubblicizzare l’omonima zona montana. Ma il film fu in realtà ritirato, Kamei infatti dopo Fighting Soldiers, il capolavoro del 1939 attraverso il quale decostruiva il senso patriottico della guerra mostrandola per quel movimento di pura conquista, violenza e sfruttamento che è, qui si prende gioco della campagna intesa come furusato. È questo un termine che significa ritorno a casa e che spesso rimanda anche ad un modo di vivere con la natura quasi in armonia. In questo lavoro il regista nipponico, attraverso un complesso fraseggio visivo con gli haiku del poeta Kobayashi Issa, non solo mostra la vita misera e povera nelle zone di campagna montane, ma ironizza finemente, pur con attimi poetici, sullo spazio della campagna concepito come «altro» e dove ritornare, «originario».