L’ordine del generale Haftar è arrivato verso le cinque del pomeriggio: è giunto il momento – ha detto, tralasciando le frasi più enfatiche: «eroi», «il sole splende di gloria» – di conquistare Tripoli. Con l’aggiunta, in coda, per i suoi: sparate solo a quelli che portano armi e spargono sangue.

Quindi ha intimato ai cittadini di Tripoli di deporre i molti fugili e le molte pistole (almeno tre ogni maschio adulto, di media) e issare drappi bianchi alle finestre per evitare di essere colpiti.

L’assedio alla capitale era nell’aria da settimane, dopo l’annuncio da parte dell’inviato speciale Onu Ghassam Salamè del luogo e della data della conferenza nazionale libica incaricata di dare un assetto costituzionale e stabile alla Libia. Le truppe di Haftar si erano portate avanti in Tripolitania, dopo aver stabilizzato il controllo, oltre che della Cirenaica, del Fezzan – l’area con i più grossi campi petroliferi – attestandosi all’ingresso di Sirte, riconquistata a duro prezzo dalle milizie di Misurata, asse portate dell’esercito del premier del governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli, Fayez Serraj.

Giovedì l’Esercito nazionale libico (Lna), cioè la milizia agli ordini di Haftar, è avanzato – ancora senza trovare resistenza – fino alla cittadina di Gharyan, distante solo un’ottantina di chilometri a sud di Tripoli, dove i soldati hanno piantato qualche bandiera e sono usciti, per accamparsi in periferia. Anche a Sirte, del resto, hanno evitato di entrare, limitandosi ieri a penetrare un po’ più all’interno della zona est.

Il generale cirenaico ha deciso la sua mossa della regina» quando nella capitale libica era appena sbarcato un ospite veramente d’eccezione: il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, arrivato mercoledì sera per seguire l’organizzazione della conferenza nazionale libica in programma tra una decina di giorni – dal 14 al 16 aprile – nell’antica città berbera di Ghadames, al confine con l’Algeria.

Guterres si è trovato così nella imbarazzante parte dell’ostaggio, ma contemporaneamente di garante – fino a prova contraria – che l’assedio alla capitale non si trasformi in guerra aperta. Il segretario Onu, che ieri con un sorriso un po’ stereotipato ha di nuovo incontrato Serraj, si è detto «molto preoccupato» per l’escalation, invitando alla «calma e alla moderazione».

Il sempre più traballante premier libico Serraj in serata ha dato ordine alla sua aviazione di sorvolare il cielo di Tripoli e di proteggere i civili e le strutture vitali della città. Ma non pare che abbia raccolto l’accorato invito di Misurata – concentrate in serata a Tagiura, pochi cilometri a est della capitale – a «non rimandare lo scontro armato con Haftar» e chiedere alla missione Unsmil di «prendere una posizione precisa».

L’avanzata verso Tripoli delle tre brigate di Haftar che muovono da Sirte e dell’altra brigata che procede da Gharyan per il momento è lenta. L’offensiva è stata dichiarata «per ripulire la città da ciò che resta dei gruppi terroristi», con assicurazioni di preservare l’incolumità dei civili e di aver cura dei beni pubblici.

Mentre in città il battaglione di Abu Salim agli ordini del ministero degli Interni ha dichiarato che i carri armati non si muoveranno per le strade se non dopo aver ricevuto ordini diretti. Tutto dunque lascia ipotizzare che l’assedio del generale cirenaico più che alla conquista strada per strada della capitale abbia come obiettivo di paralizzare le rissose milizie che operano alle dipendenze del governo Serraj e, non in seconda battuta, andare alla conferenza di Ghadames da una posizione di supremazia militare pressochè assoluta.

Del resto la posizione internazionale dell’ex gheddafiano Kalipha Belqasim Haftar si è molto irrobustita. Ormai non sono più soltanto la Francia e la Russia – e ancor più l’Egitto di Al Sisi – a tenergli bordone. Lo scorso 25 marzo si è trattenuto in Arabia saudita per una visita certamente non di cortesia. Ieri, sempre non a caso, il presidente Trump ha nominato il nuovo ambasciatore in Libia. Un diplomatico di lungo corso, Richard Boice Norland, segno che Washington non vuole stare alla finestra. Tanto meno con un drappo bianco.