Suonando la grancassa dei media, l’Esercito nazionale libico ha annunciato ieri la «seconda ondata» dell’offensiva per conquistare l’agognato centro di Tripoli, una sorta di «ora zero» della battaglia che dura ormai da tre mesi e mezzo, uno scatto per uscire da una situazione di impantanamento periferico a sud della capitale che, di certo, demoralizza le truppe. Ma fino al tramonto non sono state segnalate svolte di rilievo dal punto di vista militare, a parte l’ingresso, al mattino, nel campo di Yarmouk e una maggiore intensità dei combattimenti sugli assi più vicini alla città, da Furjan ad Abu Salim.
L’effetto-annuncio ha però allarmato non poco le forze di difesa del governo di Tripoli, il quale si è appellato alla missione Unsmil e alla comunità internazionale chiedendo che si assumessero le loro «responsabilità» di fronte a questa «escalation di milizie aggressive» che avrebbe senz’altro colpito le infrastrutture e messo a repentaglio la vita dei civili, tentando al contempo di rassicurare i cittadini sulla «prontezza» con cui le milizie rimaste fedeli al premier Serraj sarebbero state in grado di «sconfiggere questa nuova aggressione». Il timore della disfatta, alimentato da informazione fatte trapelare da un ex diplomatico libico al quotidiano Libyan Express, su un dispiegamento di mezzi messi a disposizione di Haftar dagli alleati – Emirati, Francia ed Egitto – ha investito la missione Onu che ha tentato di rassicurare gli animi confermando di «lavorare con tutte le forze per evitare questa escalation».

«L’ora decisiva non è lontana», ha detto alla fine, in serata, il generale di brigata dell’Lna Khaled al Mahjoub all’Associated Press. «Siamo a soli cinque chilometri dalla capitale, stiamo avanzando e loro si stanno ritirando». Difficile però trovare conferme, anche perché la guerra in Libia, anche in questa sua pagina per la conquista della capitale, somiglia più a una guerriglia casa per casa piuttosto che ad una linea di fronte netta e definita. Sicuramente ciò che produce più morte e devastazione è l’aviazione, caccia e droni utilizzati da entrambi gli schieramenti. E l’artiglieria pesante, usata in modo massiccio in queste ore intorno all’aeroporto internazionale di Mitiga, altro target strategico conteso.

Ci deve però essere una qualche crisi di reclutamento dopo 1.100 morti e l’ennesima delusione delle speranze di accordo, pacificazione e ritorno a un’era di prosperità e libertà, riaccese dalla conferenza fissata dall’Onu per metà aprile, finita nel pozzo di questa insensata guerra alimentata da interessi e armi straniere, come i lanciamissili Javelin che imbarazzano la Francia, trovati nella base di Gharyan espugnata dai misuratini lo scorso 27 giugno.

Ieri la liberazione dell’ultimo primo ministro libico dell’era gheddafiana, Baghdadi al Mahmoud, 70 anni, estradato dalla Tunisia nel 2012 e da allora detenuto con una condanna a morte in una prigione ad Ein Zara. Scarcerazione «misericordiosa» improvvisa del governo Serraj per non meglio precisati «motivi di salute». Sembra una rappresaglia per l’appoggio francese ad Haftar. Mahmoud è infatti, con Saif al Islam, il grande accusatore dell’ex presidente Nicolas Sarkozy sui 50 milioni di euro ricevuti dalla Libia per la campagna presidenziale del 2007, vicenda che è probabilmente tra le ragioni nascoste – il loro insabbiamento – dell’intervento scatenato da Parigi sotto le bandiere Nato.