La pioggia di missili che da giorni l’autoproclamato capo dell’Esercito nazionale libico (Enl), Khalifa Haftar, rovescia su Tripoli non ha risparmiato lunedì nemmeno l’ospedale al-Khadra nell’area di Bab-Hadba della capitale.

L’attacco, raccontano i media libici, ha provocato molta paura tra il personale sanitario e i pazienti, la rottura del generatore elettrico della struttura e il ferimento di un lavoratore straniero.

Salvi i pazienti che sono stati trasferiti in altre strutture della capitale. È un copione che si ripete uguale da un anno, da quando è Haftar ha lanciato l’offensiva contro i «terroristi» che sostengono il governo di Tripoli.

Una guerra brutale che l’Onu ha riassunto qualche giorno fa in numeri: 356 morti e 329 feriti civili; 159mila sfollati nell’area di Tripoli; 893mila persone che necessitano di assistenza umanitaria.

C’è stato però qualcosa di ancora più odioso nell’attacco di lunedì: al-Khadra è una delle poche strutture in cui possono essere ricoverati i malati da Covid-19. In Libia, il Governo di accordo nazionale (Gna) e Haftar continuano a scherzare con il fuoco: la tregua umanitaria del 20 marzo per fronteggiare l’epidemia non ha mai avuto inizio e non basta proclamare restrizioni e coprifuoco se non tacciono le armi.

Gli effetti per ora contenuti del virus – ufficialmente 19 casi e una vittima – potrebbero essere devastanti: il paese non dispone di centri diagnostici adeguati, strutture sanitarie di livello internazionale e fondi necessari contro il coronavirus.

L’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (Oim) sabato ha lanciato l’allarme soprattutto per i 700mila rifugiati e migranti per cui il Covid potrebbe rappresentare «una vera catastrofe».

«Le condizioni dei migranti sono tragiche. Centinaia di migliaia di persone sono chiuse in hangar affollati con nessun accesso ad adeguate strutture sanitarie. Molti sono detenuti da mesi o perfino anni», ha denunciato la ricercatrice dell’Oim Amira Rajab el-Hemali.

Secondo l’Onu sono 1.500 i migranti rinchiusi in 11 centri «ufficiali» di detenzione. Altre «migliaia» invece lo sono in «prigioni private» gestite da trafficanti dove abusi e stupri sono prassi diffuse. Una barbarie che ha gravi ripercussioni psicologiche, spesso trascurate non essendo quantificabili in numeri. «Queste situazioni sono connotate da un carico traumatico la cui violenza e brutalità su un piano reale ed effettivo è innegabile.

Nelle loro testimonianze Libia è sfruttamento, tortura, violenza sessuale, isolamento e questi vissuti ritornano sotto forma di reminiscenze, incubi, somatizzazioni e sintomi depressivi: «PTSD (disturbi da stress post-traumatico)», ci spiega Francesca Glovi, esperta in clinica transculturale.

L’arrivo del Covid peggiora un quadro già drammatico. «La criticità della situazione attuale – dice Glovi – incide in maniera ancora più forte sul loro benessere psicofisico: isolamento e precarietà sono amplificati dall’impossibilità di ricevere assistenza, seppur minima, formale o informale».

In queste condizioni scappare dalla Libia-prigione diventa sempre di più una necessità. Ma attraversare il Mediterraneo è impresa più rischiosa ora che le attività delle ong sono state sospese causa pandemia.

Lo sanno bene 80 migranti che, denuncia la ong AlarmPhone, sono bloccati da due giorni su una barca senza benzina nei pressi di Malta. Alla deriva come la Fortezza Europa.