A distanza di una sola settimana, il cessate il fuoco in Libia proclamato ai quattro venti dai protagonisti internazionale del Convegno di Berlino è un lontano ricordo. In Libia, infatti, anche nel fine settimana, si è continuato a combattere: un bombardamento effettuato dalle forze dell’autoproclamato capo dell’Esercito nazionale libico (Enl), Khalifa Haftar, sull’area dell’aeroporto di Mitiga (Tripoli) ha provocato la morte di una persona e il ferimento di altre tre. Ad annunciarlo in una nota è stato il Ministero della Salute del Governo di Accordo nazionale (Gna) riconosciuto internazionalmente.

Ma non è solo la capitale libica ad essere sotto assedio da parte dell’Enl: nella giornata di ieri gli uomini di Haftar sono riusciti ad estendere il loro controllo su diverse aree della Libia centrale, in particolar modo nel villaggio di Abugrein, a sud-est di Misurata, città in cui operano 300 militari italiani nell’ambito della Missione Miasit. Gli scontri, avvenuti tra le città costiere di al-Hisha, Wed Zumzum e Abu Qurain sono stati violenti: le vittime sarebbero almeno 17 (7 del Gna e una decina quelle di Haftar). Durissimo il commento del governo di Tripoli guidato da al-Sarraj: «Con le ripetute violazioni, il nemico (Haftar) rende inutile il cessate il fuoco».

La tensione è altissima nel Paese anche perché continuano ad arrivare da fuori le armi. A denunciarlo è la missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil): «Siamo profondamente rammaricati per le continue e palesi violazioni dell’embargo sulle armi anche dopo gli impegni assunti al riguardo dai paesi interessati durante la Conferenza internazionale sulla Libia di Berlino». «La tregua del 12 gennaio concordata dal Gna e dall’Enl (e mediata da russi e turchi) è ora minacciata dal trasferimento in corso di combattenti stranieri, armi, munizioni e sistemi avanzati alle parti in conflitto da parte degli Stati membri, inclusi molti che hanno partecipato ai lavori di Berlino». L’accusa non è solo quindi rivolta al presidente turco Erdogan e ai mercenari che ha inviato dalla Siria (se ne calcolano oltre 2.000 già attivi in Libia), ma anche da altri paesi perché, scrive l’Onu, «forniscono alle parti armi avanzate, veicolo corazzati, consiglieri e combattenti».

Alle violenze e all’embargo di armi violato, si aggiunge poi il blocco dei giacimenti di petrolio deciso da Haftar dal 17 gennaio. Chiusure che, afferma la compagnia petrolifera libica Noc, hanno portato alla riduzione del tasso di produzione di greggio nazionale dagli oltre 1,2 milioni di barili al giorno, ai 320.154 attuali. Tradotto economicamente, afferma la Noc, questo vuol dire una perdita di 318 milioni di dollari (in solo 7 giorni di chiusura).

In questo clima, sembrano del tutto fuori luogo le parole dell’altro ieri dell’inviato Onu in Libia, Salamah, secondo cui il Paese ha bisogno di «un nuovo governo che si occupi di servire i cittadini e preparare la situazione per le elezioni al fine di risolvere il problema della legittimità intrattabile».

Ieri, intanto, vertice ad Algeri sulla Libia tra il neo presidente algerino Tebboune e quello turco Erdogan (il vero protagonista in Libia insieme al suo pari russo Putin). «La Turchia – ha detto il leader turco – continuerà a stare al fianco dei suoi fratelli libici. Continueremo a lavorare per fermare il bagno di sangue in Libia». Parole che sono pure minacce per Haftar che ha più volte denunciato «l’occupazione ottomana» del suo Paese.