Il Partito Pirata islandese è una di quelle cose eccitanti di cui senti parlare ma che nel cuore sai che non accadranno mai. Tranne che questa volta è tutto vero. C’è un’elezione, e c’è la piccola possibilità che Pirater (il nome in islandese) vinca e formi un governo di coalizione. Come minimo, è probabile arrivi secondo.

Gli ultimi sondaggi assegnano al Partito Pirata il secondo posto dietro il Partito dell’Indipendenza di centro-destra. Ma sondaggi precedenti lo vedevano in testa con distacchi a due cifre. Incredibile per un’organizzazione politica che ha come logo una bandiera pirata.

«Ci chiamiamo Partito Pirata in parte con riferimento al movimento globale dei Partiti Pirata emerso nell’ultima decade», ha detto al Guardian la candidata al parlamento Smari McCarthy. «Nonostante il nome in Islanda siamo presi piuttosto sul serio, in particolare per la nostra aggressiva posizione contro la corruzione e il nostro lavoro per la trasparenza”. Sta tutto nell’essere se stessi.

Il fatto è che in Islanda si può essere stravaganti ed essere presi lo stesso sul serio. L’esempio è un altro leader di partito, Ottar Proppé. Il suo partito Bright Future (futuro luminoso) ha sei seggi in parlamento ed è stato formato unendo le forze con un altro gruppo chiamato Best Party, guidato da un aggressivo comico di nome Jon Gnarr. «Con quello che all’inizio era uno scherzo, il 16 novembre 2009 Gnarr è diventato sindaco di Reykjavik», ha scritto il Political Handbook of the World. («Perché mi devo sempre cacciare nei guai?”, ricorda di aver pensato Gnarr quando vide i risultati e realizzò che avrebbe davvero dovuto fare il sindaco).

Ma il Partito Pirata non è uno scherzo. È una propaggine del Partito Pirata internazionale fondato in Svezia nel 2006 su un programma di un punto: combattere le leggi sul copyright. Ora il partito si occupa anche d’altro. In particolare in Islanda favorisce la democrazia diretta, inauditi livelli di trasparenza del governo e di privacy per i cittadini. Sono fan di Edward Snowden. Nel 2013 la prima legge che appoggiarono era per garantirgli la cittadinanza.

«È un partito che ha le sue radici nei diritti civili», ha detto al Washington Post la leader del partito Birgitta Jonsdottir. «Ma non come molti partiti di sinistra che vogliono regolamentare i cittadini e creare stati-balia. Riteniamo che la regolamentazione deva riguardare i potenti, non gli individui».

E Jonsdottir, 49 anni, è diversa dalla maggior parte dei politici compresi i più di sinistra. Con le sue perline viola e le trecce, fa sembrare Pablo Iglesias un conformista. E l’isola è piccola: il suo primo fidanzato fu quello Gnarr, e da ragazzini – citazione di Wikipedia senza ‘autore – «insieme si sono drogati, hanno letto letteratura anarchica e fatto progetti per aprire Greenpeace in Islanda».

Ha pubblicato poesie prima di diventare sviluppatrice web e attivista. Ecco l’estratto di un suo poema, per avere un’idea: Ho sempre creduto nel potere dell’individuo/ e che tutti e ognuno di noi possiamo fare la differenza./ Penso di crederci ancora,/ ma credo mi servano prove./ Ogni giorno leggo, penso / altre cose che mi fanno impazzire./ Devo pregare per quell’1%/ o prenderli a calci in culo?/ Non lo so./ Vorrei sapere cosa serve per obbligarli a aprire gli occhi/ sulla miseria che la loro avidità e la loro fame di potere/ causa a così tanta gente./ Il nostro pianeta.

Quello che volete, ma almeno è autentica. Il Post l’ha definita «la Bernie Sanders d’Islanda» ma non le rende giustizia. Sanders ha credenziali da attivista ma, come ogni politico Usa di rilievo, è un tipico prodotto di Washington. Jonsdottir guida un piccolo partito in un piccolo paese che non teme di far eleggere sindaco un comico fumato. E per essere onesti, le sue poesie sono orrende.

Ma ha guidato il suo partito con successo perché le sue principali politiche sono il perfetto antidoto al malessere economico della grande recessione e all’impopolarità del governo uscente, implicato nello scandalo dei Panama Papers.

«La gente vuole cambiamenti veri, e hanno capito che dobbiamo cambiare il sistema. Dobbiamo modernizzare il modo di fare le leggi. Dobbiamo essere sicuri che ogni volta che si affrontano grandi argomenti come il riscaldamento globale, la sicurezza mondiale, i rifugiati, la questione europea, l’accesso all’informazione, sia fatto con la consapevolezza che queste cose sono interconnesse”, ha detto al Post. «Forse l’Islanda può essere un terreno di prova: siamo pochi e siamo una nazione molto orientata alla tecnologia».