Nel suo discorso alla nazione di martedì, Joe Biden ha respinto con forza tutte le critiche alla decisione di porre fine alla ventennale guerra americana in Afghanistan, difendendo quello che ha definito lo «straordinario successo dell’evacuazione di Kabul», e dichiarando la fine di «un’era in cui gli Stati uniti usano il potere militare per ’rifare’ altri Paesi» e che «non c’è niente di basso profilo, a basso costo o a basso rischio in una guerra».

PARLANDO dopo meno di una settimana dall’attentato terroristico in cui sono stati uccisi 13 militari statunitensi in servizio all’aeroporto di Kabul, Biden ha rimarcato che restando in Afghanistan il prezzo per gli Usa sarebbe diventato ancora più alto. Rimanere, ha detto, esporrebbe la nazione al rischio pressoché certo di restare impantanati per altri anni in una guerra civile che si trascina da decenni.
Biden si è ritratto come un leader che ha preso l’unica strada a sua disposizione in una situazione frutto di una miriade di scelte sbagliate, dando la colpa all’esercito afghano e al suo predecessore, Donald Trump, che lo scorso anno ha firmato l’accordo con i talebani impegnando gli Stati Uniti Stati a ritirarsi completamente entro maggio.

Le reazioni alla veemente difesa di Biden del suo operato hanno iniziato a rompere il fronte compatto di disapprovazione mediatica che accompagna il presidente dal 15 agosto, tanto che su The Atlantic David Rothkopf ha affermato che Biden «merita lodi, non critiche, riguardo l’Afghanistan. Gli americani dovrebbero sentirsi orgogliosi di ciò che il governo e l’esercito degli Stati Uniti hanno realizzato in queste ultime due settimane. A differenza dei suoi tre immediati predecessori nello Studio Ovale, anche loro arrivati a vedere l’inutilità dell’operazione afghana, solo Biden ha avuto il coraggio politico di porre fine al coinvolgimento dell’America. È vero che è stato Donald Trump a fare il piano per porre fine alla guerra, ma ha fissato la data di partenza dell’esercito Usa dall’Afghanistan dopo la fine del suo mandato, e ha creato le condizioni che hanno reso la situazione ereditata da Biden più precaria».

LA CAUTELA espressa da Biden sui limiti del potere degli Stati uniti potrebbe avviare un dibattito che molti americani aspettano da decenni.
Le sue, ha sottolineato su Politico l’analista Jeff Greenfield, «sono parole che nessun presidente ha mai pronunciato, almeno non dall’inizio della Guerra fredda tre quarti di secolo fa. Non ha parlato di responsabilità globale né del ruolo “indispensabile” degli Stati uniti, ma di ciò che questa nazione così ricca e potente potrebbe e non dovrebbe fare, e del sorprendente costo finanziario e umano di tentare e poi fallire».

I COMMENTI al discorso di Biden non si sono concentrati solo sulla sua difesa della strategia di ritiro dall’Afghanistan, ma sottolineano come sia ben più significativo per la politica Usa che Biden sembri abbracciare una convinzione condivisa in modo bipartisan, anche se per ragioni diverse, dal popolo americano: il ruolo internazionale dell’America fino ad ora è stato un esercizio di presunzione, e questo deve finire.
Questo messaggio meno interventista circola da inizio secolo; era stato evidente nella brusca svolta contro George W. Bush alle elezioni di medio termine del 2006, aveva sostenuto la candidatura di Barack Obama a spese di Hillary Clinton, che al suo contrario aveva votato per la guerra in Iraq, è stato poi uno dei punti di forza della campagna di Donald Trump del 2016, anche se inquinato dal messaggio nativista, ed è ora al centro dell’appello di Biden: qualunque cosa sia andata storta quando gli Usa hanno lasciato l’Afghanistan, dovevano comunque uscirne e ora bisogna imparare da quell’avventura sbagliata.

RESTA DA VEDERE se davvero gli Usa sapranno essere guardiani della democrazia con mezzi diversi dalla guerra e se realmente riusciranno a non usare il pretesto dell’essere i paladini della giustizia per fare i propri interessi.
Il silenzio della sinistra socialista di queste settimane, anche dopo il discorso alla nazione, sembra dare una chance.