«Ero alla mensa, a Rio, quattro anni fa. Una distesa di grandi campioni, l’università dello sport mondiale. Vedo un gruppo di atleti intorno a lui. Ridono, volti distesi. Alex stava allentando la tensione di tutti raccontando barzellette. Lui è uno di noi». Vincenzo Boni, nuotatore, è uno degli atleti di punta del movimento paralimpico italiano, con la medaglia di bronzo conquistata alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro nel 2016. E sempre nel 2016 ha centrato anche l’oro ai Mondiali paralimpici di Glasgow e Città del Messico, oltre al primo gradino del podio agli Europei di Dublino. In Brasile ha conosciuto a fondo Zanardi. Per lui era un mito prima, l’istantanea meglio riuscita della bellezza dello sport paralimpico. Lo è ancora di più da allora. Dall’incidente di Zanardi, avvenuto due giorni fa sulla statale in provincia di Siena, è continua la corsa al cellulare per informarsi sulle condizioni di salute del 54enne campione bolognese.

Boni, cosa rappresenta Alex Zanardi per lo sport paralimpico italiano?

Tutto, mi creda. È il primo tra noi. È uno di noi. Da ieri mi avvolge un alone di tristezza, di ansia, con il continuo ricorso allo smartphone, su cui spero sempre di trovare un pizzico di speranza, uno stralcio di notizia positiva sulle sue condizioni. Alex è un mito, un esempio, un atleta incredibile che ha saputo reinventarsi, un amante della velocità pura, che vinceva sulle quattro ruote, arrivato anche in F.1. Zanardi ha portato alla luce il nostro microcosmo, le sue esigenze, le potenzialità ma anche l’occasione per tanti, come avvenuto per me, di vivere l’amore per lo sport e tutto ciò che comporta, dalla fatica al sacrificio, la competizione. Sempre una pacca sulla spalla, un consiglio. La sua vicinanza. Ho letto quanto dichiarato da Manuel Bortuzzo sulla telefonata ricevuta da Zanardi dopo il dramma vissuto. Gli ha detto che ci sarebbe stato. Ora dobbiamo esserci noi, per Alex.

Come Zanardi, Bebe Vio è divenuta un’icona per lo sport paralimpico. Tra i due è avvenuto una specie di passaggio di testimone?

Bebe Vio è ora il volto mediatico dello sport paralimpico e anche di un certo modo ironico, leggero, direi sereno di vivere sport e disabilità. Ma è grazie ad Alex che si è accesa la luce sugli sforzi degli atleti paralimpici. Dobbiamo essergli assolutamente grati. E ringraziarlo anche in questo momento che è in lotta per sopravvivere: c’è grande attenzione sullo sport intrecciato alla disabilità.

Mi diceva che il libro scritto da Zanardi lo scorso anno, «Volevo solo Pedalare…ma sono inciampato in una seconda vita», per lei è stata una lettura illuminante.

Certamente, si pensi solo al titolo: evidenzia la forza di Alex di scrivere un nuovo capitolo, una nuova storia. Da amante e campione delle quattro ruote, dalla F.1 e la Formula Indy, alle due ruote, alla passione per l’handbike, dopo quell’incidente tragico in auto, nel 2001 in Germania, auto tagliata in due e amputazione obbligatoria per continuare a vivere. Chiunque si sarebbe fermato, sarebbe caduto. Non Alex, che sicuramente è caduto nei momenti bui, rialzandosi sempre il giorno successivo. Quel libro è un esempio, se dovesse capitare qualcosa di grave anche a me avrei voluto scrivere «Volevo solo Nuotare».

Il flusso di messaggi di vicinanza per Zanardi sembrano aver unito l’Italia, un collante come nella lotta al Covid-19.

È la prova della forza del suo messaggio e della grandezza come persona, prima ancora che come campione. Leggo su Twitter, dove seguo tutto su di lui, che è incoraggiato da campioni dello sport, artisti, politici. Un gigantesco attestato di stima e amore, tutto questo non può avvenire per caso. Ma avrei una cosa da dire agli haters, a chi in queste ore è così critico e si chiede perché Alex spinga sempre al limite.

Cosa vorrebbe dire?

È la nostra natura di sportivi. Normodotati, disabili. Siamo nati per competere, correre. L’agonismo ti accende, ti spinge avanti ogni giorno, nonostante le evidenti difficoltà, logistiche, organizzative. Sappiamo vivere solo così, non possiamo essere diversi da quello che siamo. Ecco perché Zanardi era sulla sua handbike a 50 chilometri orari sulla strada statale di Siena, peraltro nella staffetta Obiettivo Tricolore promossa per portare lo sport paralimpico sulle strade, dalla Lombardia alla Puglia. L’ennesimo, straordinario messaggio di forza. Quello che gli è accaduto è solo tragica fatalità, un accanimento del destino per un fenomeno che come nessuno ha saputo resettare, ripartire, non una ma più volte. Da paralimpico si è costruito da sé, facendola diventare una missione, lanciando la sfida verso le Paralimpiadi di Tokyo, che era la sua sfida più grande, come lo sarà per me.