Per la Linke sono in arrivo tempi nuovi: da ottobre Gregor Gysi lascerà il ruolo di capogruppo parlamentare e si ritirerà dalla prima fila della scena politica. L’annuncio è arrivato al congresso del partito svoltosi sabato e domenica a Bielefeld: una decisione che era nell’aria, malgrado Gysi non avesse fatto trapelare nulla sulle sue reali intenzioni. Non si è trattato di uno strappo, ma della scelta «naturale» di fare il passo indietro «al momento giusto», per affidare la guida del principale gruppo di opposizione del Bundestag «a mani più giovani».

Con un discorso appassionato, il 67enne leader storico della Linke ha voluto lasciare anche un preciso legato politico in vista delle elezioni del 2017: «Il ruolo di eterna opposizione non serve, il nostro obiettivo deve essere andare finalmente al governo». Nell’unico modo possibile: alleandosi con i socialdemocratici della Spd e i Verdi. Questo il disegno strategico della parte «moderata» del partito, che lascia molto freddi i settori più radicali, che fanno riferimento a Sahra Wagenknecht.

La sfida «interna» della Linke è tutta qui: riuscire a mantenere l’equilibrio fra le correnti, trovando una linea di compromesso che convinca militanti e, soprattutto, elettori. Molti commentatori interessati scommettono che senza il carismatico Gysi al timone si rivelerà impossibile: in realtà, il clima di coesione interna è buono, soprattutto grazie al paziente lavoro dei due co-segretari Katja Kipping e Bernd Riexinger. In ogni caso, il primo banco di prova arriverà molto presto: tra otto giorni si definirà la successione di Gysi. Probabilmente toccherà al duo formato dal «riformista» Dietmar Bartsch e da Wagenknecht: soluzione che non scontenterebbe nessuno e avrebbe il pregio di non cristallizzare maggioranze e minoranze interne.

Un’importante sollecitazione ad andare nella direzione di un’alleanza delle sinistre è venuta dal numero uno del sindacato, Reiner Hoffmann, ospite d’eccezione delle assise di Bielefeld. Pur se espresso con ovvie cautele diplomatiche, il messaggio del segretario generale della confederazione unitaria Dgb (che ha ben 6 milioni di iscritti) è stato chiaro: serve una politica diversa da quella di Angela Merkel e della Grosse Koalition. In patria, ma anche in tutta Europa: «È illusorio credere che alla Germania le cose possano continuare ad andare bene se ad altri stati dell’Unione europea vanno male», ha affermato Hoffmann, non risparmiando critiche all’austerità «che porta sull’orlo del baratro i paesi dell’Europa meridionale». Dal leader Dgb anche un duro attacco al trattato di libero scambio commerciale (Ttip) che si sta negoziando fra Usa e Ue.

Il sindacato tedesco non è certo diventato improvvisamente rivoluzionario, ma quel che è certo è che si assiste a una fase di offensiva nelle rivendicazioni dei lavoratori. Tre le principali vertenze aperte, con relativi scioperi: quelle di macchinisti delle ferrovie, postini e operatori dei servizi comunali per l’infanzia. La vicenda di questi ultimi è particolarmente emblematica: chiedono significativi aumenti di stipendio (in media del 10 per cento) e una valorizzazione del loro impegno di fronte alle sempre nuove e più gravose responsabilità che sono loro assegnate, ma non riconosciute. Attualmente, il primo stipendio di chi lavora in un asilo nido è di circa 2300 euro lordi, mentre chi è a fine carriera ne guadagna un migliaio in più: per il sindacato è troppo poco, soprattutto considerando i «conti in ordine» e le ottime condizioni economiche del paese.