Quando, a cinquant’anni compiuti, Agota Kristof pubblicò Il grande quaderno, provammo tutti la sensazione lancinante che i nonni evocati rappresentassero l’armadio in cui sta chiuso a chiave il passato. L’Ungheria di cui si parlava, sebbene mai apertamente citata, era costretta in una cornice di violenze: Kristof era nata nel 1935, il secondo conflitto mondiale l’aveva dunque travolta a pochi anni, lasciandola spiaggiata in tempo di cosiddetta pace con una sporta di violenza e domande ingoiate a forza. La Storia scoppia in faccia ai bambini, dicevano i due gemelli della Trilogia della città di K, e lascia morti per terra. Ai bambini non resta che ratificare l’orrore, aggiungere al mondo precedente altre ipotesi, altre domande: «Una volta, lontano nella foresta, sull’orlo di un grosso buco fatto da una bomba, troviamo un soldato morto. È tutto intero, gli mancano solo gli occhi per via dei corvi».

A tenersi stretti il passato, con certezze e segreti, sono i vecchi. «Ecco vostra Nonna – dice la Madre ai gemelli. Resterete con lei per un po’, fino alla fine della guerra». I genitori stanno a cavallo della Storia, troppo impegnati a non farsi disarcionare per occuparsi anche dei figli. Ai figli resta la loro assenza da ricapitolare ogni giorno e una Nonna cui imputare la propria condizione di orfani, e insieme la colpa di essere stati messi in salvo, ma tenuti fuori dalla Storia. E resta la missione del ricordo, sebbene l’oggetto della loro memoria sia qualcosa di mai vissuto in prima persona.

Emma, la protagonista di Fiamme, del quarantaquattrenne romeno di lingua ungherese Györgi Dragomán (Einaudi, traduzione di Andrea Rényi, pp. 364, euro  22,00), è parente prossima dei gemelli della Trilogia. E il romanzo è un evidente – seppur non esplicito – corpo a corpo con il capolavoro di Agosta Kristof, aggiornato al 1989: il crollo di un paradigma, quello comunista, su cui si reggeva un mondo, la condanna a morte dei tiranni, gli spari per le strade, i traditori a piede libero. Dopo aver perso entrambi i genitori in un incidente stradale, Emma vede arrivare in orfanotrofio una donna che sostiene di essere sua nonna: «La direttrice dice che la vecchietta è qui per me. La vecchietta dice che è mia nonna e che è venuta a prendermi. Le dico che non ho nonne. Né nonni. Non ho nessuno».

Lo stile rimanda direttamente alla prosa di Agota Kristof, riprende la secchezza di un’infanzia brutalizzata anche nel linguaggio, i sentimenti volutamente cauterizzati: «Continuiamo così – dicevano i gemelli nel Grande quaderno – finché le parole non entrano più nel nostro cervello, non entrano nemmeno nelle orecchie. Ci esercitiamo in questo modo una mezz’ora circa ogni giorno. (…) A forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua». È l’unica difesa dei bambini di fronte alla bocca spalancata della Storia.

Già nel Re bianco, Györgi Dragomán aveva raccontato le violenze del regime di Ceaucescu, l’infanzia al tempo del sospetto, l’insidioso gioco paranoico delle colpe. Lì, c’era un padre dissoltosi nel nulla, finito dentro il buco nero della polizia segreta. I riferimenti letterari costituivano l’impasto fenomenale tra un passo narrativo tutto dickensiano e un immaginario smaccatamente postsovietico. Ironia, empatia e Securitate.
In Fiamme, Dragomán sceglie come suoi custodi Agota Kristof e Herta Müller, una ungherese (sebbene scrivesse in francese), e una romena di lingua tedesca. Sceglie due esuli, dunque, per tornare a casa. Ed è in fondo una casa quella che cerca la protagonista del suo romanzo, Emma.

Il rovello dei nipoti nella Trilogia era come trovare una casa dentro il tempo, come individuare la propria posizione lungo l’asse del tempo. Emma vive un momento storico e personale in cui tutto salta in aria: la rivoluzione, il dominio sul suo corpo. Varcata quella linea sarà impossibile tornare indietro, adolescenza e capitalismo insieme. «Parla di marmellate, carta igienica, scatolette di pesce, crema al cioccolato, c’è tutto e ci sarà tutto, ormai ci sarà sempre tutto, lo dice con un tono di preghiera, come se non ci credesse». A tredici anni, Emma ha un piede in un’infanzia sovietica data per fallita, e un altro in un mondo che dovrebbe essere migliore, ma fa più paura ancora, un mondo che brandisce il vessillo dell’abiura.
Il presente di Emma è un faccia a faccia con i morti, ha i piedi conficcati nel passato. Si evoca di continuo il foro del proiettile sulla fronte di Ceausescu, giustiziato nel fango insieme alla moglie. E poi i morti accanto all’andirivieni dei sopravvissuti, sbucati indenni dentro il mondo nuovo: «Péter va sul ghiaccio, dice che è per i morti. Dicono che dopo le raffiche li hanno tenuti qui, sul ghiaccio, per qualche giorno, prima di nasconderli da un’alta parte. (…) Il ghiaccio è grigio, non è una pista di ghiaccio, pattiniamo su un lago ghiacciato con le crepe, (…) vedo i morti che fluttuano nel ghiaccio».

Quella che Dragomán in fondo racconta è quanta zavorra di passato i nipoti sono costretti a portarsi sulle spalle. Racconta un’Europa di rovine ereditate. Solo le macerie contano, solo i morti, i segreti messi un una bara. Commemorare senza capire fino in fondo, è questa la scure dell’eredità. Emma non a caso riceve in dono dalla nonna un orologio, che fu a suo tempo di sua madre. Ciò che conta, sembra dire Dragomán, è la quantità di giri che hanno fatto le lancette per arrivare sin qui. «Il dolore aiuta a ricordare – le dice la nonna –, non solo il dolore ma tutto, perché esiste solo quello che ricordiamo, quello che dimentichiamo non c’è più scompare dal passato, scompare dal mondo”; “l’oblio è come una maledizione che si posa sulle spalle di tutti».

Emma diventa grande così, con un passato da portare alla catena, impossibile da far passare veramente, ammucchiato lì tutto insieme, tutto già fallito, il più antico e il più recente: «Il signor Pali ha trovato i morti (…). Stavano nella vallata dietro la fabbrica di mattoni abbandonata. Dicevano che era sicuramente una fossa comune della Prima guerra mondiale, o il luogo di sepoltura dei morti del ghetto».
È sempre tempo di ricordare, ci induce a pensare Györgi Dragomán in questo romanzo importante, ma è anche venuta l’ora di sfilarsi dal ricatto iscritto in ogni eredità, storica e privata.