Una scena mozzafiato, la danza che tocca to, la danza che tocca il parossismo mentre il corpo senza vita della figlia di Agamennone si accascia sulle ginocchia di Oreste, disegnando una sorta di «pietà» rovesciata. Nessuno poteva immaginare quanto scioccante, al di là dagli intrinseci contenuti, sarebbe apparsa domenica sera a Bologna la scena finale di Elektra di Strauss, nell’allestimento di Guy Joosten : una catasta di corpi insanguinati, in cui si riconoscevano oltre a Egisto e Clitennestra ( l’ottima Natascha Petrinsky, applaudita insieme a Elena Nebera, ardente Elektra e Anna Gablel, Crisotemide; sul podio Lothar Zagrosek), i servi, le ancelle e le guardiane, le quali aprivano l’opera, in uno spogliatoio al piano terra del palazzo prigione semidiroccato in cui si sviluppa vicenda, fra rottami e tracce di grandeur ormai dimenticata. Joosten ha portato con successo a Bologna ( fino al 22, la prima volta a Bologna in lingua tedesca) questo spettacolo visto a Barcellona e poi a Bruxelles, molto incentrato sul rapporto fra le figure femminili: «Per me è centrale il rapporto fra le due donne più forti, Elettra e Clitennestra, nel fondamentale duetto al cuore dell’opera. Non c’è un confronto fra una donna cattiva e una vittima, ho cercato di mostrare quanto entrambe siano vittime di un male precedente rispetto alle vicende raccontate da Hofmannsthal e Strauss».

Eppure librettista e autore disegnano un percorso molto preciso, le posizioni sono chiare. Che spazio c’è per il regista?
Se non ci fosse vedremmo sempre la stessa rappresentazione codificata in eterno. Invece c’è spazio per intervenire lavorando sulle psicologie femminili. Ho anche cercato di dare maggiore risalto al servo di Oreste, che lo ha cresciuto da bambino, ha le chiavi del palazzo e può aiutarlo.

In verità, a partire dal fantasma di Agamennone, le figure maschili sono tutte bidimensionali.
Sì, è vero, al punto Hofmannstahl voleva quasi espungerle. A Egisto viene affibiato il nome di donnetta, negandone la virilità, se ne esalta una sorta di perversione che nel testo del resto è palese. Oreste è quasi solo uno strumento di vendetta nelle mani della sorella, nulla ci viene detto dei suoi sentimenti profondi.

Per un regista però c’è la necessità di piegarsi alle ragioni del canto, l’opera è molto difficile per le voci.
Specialmente per la protagonista, una parte killer. Bisogna fissare dei limiti di quel che si può e non si può fare: io però ascolto molto i cantanti e la musica, si trova sempre un ottimo compromesso per portare sulla scena quello che mi interessa.