Selvon, Ardan, Yusuf. In primo piano ci sono loro: tre amici, tre ragazzi inseparabili cresciuti tra i palazzoni della periferia nord di Londra. Messi insieme mostrano i colori e le radici di quella «patria bastarda» che definisce l’identità più profonda della metropoli britannica. Il primo è d’origine irlandese, la famiglia del secondo è arrivata dalle Antille, quella del terzo dal Pakistan. Ogni giorno, fin da bambini hanno misurato fino a che punto «la violenza ha costruito questa città». Strato su strato, giorno dopo giorno. Ma è quando un giovane di origine africana, vicino al fondamentalismo islamico, che parla ed è vestito come loro, uccide un soldato inglese, che sembrano perdere ogni speranza. Guardare il video dell’assassinio «è come vedere le nostre facce andate a male», pensano, siamo «destinati alla rovina».

Alle spalle dei ragazzi ci sono Caroline, la madre di Ardan, e Nelson, il padre di Selvon, che portano in sé la memoria di un’altra stagione di violenza, le tensioni razziali degli anni ’50 e quelle ancor più terribili della Belfast degli anni ’70 scossa dal terrorismo.

È intorno a questi cinque personaggi, le cui vicende, punti di vista ed emozioni si intrecciano inestricabilmente in un romanzo corale dove a raccontarsi sembra essere Londra stessa, che Guy Gunaratne ha costruito il suo straordinario esordio narrativo, La nostra folle, furiosa città (Fazi, pp. 288, euro 18, 50, traduzione di Giacomo Cuva), che ha ottenuto importanti riconoscimenti nel Regno Unito.

Nelle 48 ore che seguono l’omicidio, stretti tra le manifestazioni dei razzisti, la pressione della jihad delle periferie e il sentirsi in qualche modo «stranieri in patria», Selvon, Ardan e Yusuf cercheranno ad ogni costo una strada per sottrarsi alla violenza.

Nato nel 1984 da una famiglia dello Sri Lanka a Neasden, sobborgo settentrionale della città, Gunaratne non crea soltanto dei personaggi di grande fascino, plasmati da una lingua che pesca nello slang come nei riferimenti alle culture urbane, a partire dalla musica «grime» che mescola garage, drum and bass, hip-hop e dancehall, ma riesce nell’intento di tracciare una sorta di biografia collettiva di una città e dei suoi giovani abitanti.

[do action=”citazione”]Davanti al video di uno dei killer di Lee Rigby ero scioccato. E non solo per l’orrore. Per una strana identificazione. Quel tipo parlava e vestiva come me, sembrava del mio quartiere[/do]

Il romanzo si ispira a una storia vera: l’assassinio del soldato Lee Rigby da parte di due suoi coetanei di origine nigeriana, legati agli jihadisti, nel 2013. Cosa l’ha colpita di più in quella vicenda?
Ero in Finlandia quando è successo, ma il video di Michael Adebolajo (uno degli assassini, ndr), coperto di sangue, ha fatto il giro del mondo. Ricordo di essere rimasto scioccato, non solo dall’evento, ma soprattutto dal fatto che quel tipo parlava come me da ragazzo ed era vestito come i giovani della mia scuola. Era un atto di terrorismo, certo, soltanto che aveva dei contorni decisamente troppo familiari. A quel punto, la cosa meno interessante che avrei potuto fare sarebbe stata quella di scrivere del percorso di radicalizzazione di un figlio di immigrati. Ma ciò che mi disturbava di più in quella vicenda era il fatto di provare una strana sensazione di identificazione con quel tipo, come se potessi assomigliargli. E non ci si dovrebbe identificare con i mostri. Sono cresciuto dopo l’11 settembre e ricordo che nella mia classe quasi tutti festeggiarono, quel giorno. Ho pensato che le persone come me potevano finire facilmente tra i terroristi.

Le storie dei protagonisti ci dicono qualcosa sulle radici della violenza, sull’odio che rischia di travolgerli?
Quando ho iniziato il romanzo, volevo mostrare l’atmosfera in città dopo l’omicidio. È molto difficile capire l’estremismo quando lo si considera solo come un’astrazione. Abbiamo tutti degli impulsi che a volte ci spingono verso atti estremi. E possiamo vivere delle situazioni nelle quali ci scopriamo crudeli. Per questo, nella storia di ciascun personaggio l’idea di una certa debolezza verso «l’estremo» si coniuga con la presenza di un senso di frustrazione che riguarda soprattutto il corpo e la sessualità: un tema che è spesso all’origine, specie per i giovani uomini di affermare la propria mascolinità con la violenza. La sensazione disturbante che ho provato guardando il video dell’assassino di Rigby, la restituisco attraverso queste figure che si misurano ciascuna con la propria personale versione dell’estremismo.

Lo scrittore Guy Gunaratne

I giovani che sono al centro del romanzo, e che come lei sono nati a Londra da genitori immigrati, si chiedono se esista un luogo che possono chiamare «casa». Quale è la risposta?
Per molto tempo ho resistito all’assunto secondo il quale se hai anche delle radici altrove, nel mio caso potrebbe essere lo Sri Lanka, allora tutto deve avvenire all’insegna di una grande sforzo, quasi di una lotta interiore tra due parti di te. E per molto tempo anche la letteratura britannica e autori meravigliosi come Hanif Kureishi hanno utilizzato questa storia delle duplici eredità culturali per raccontare di chi si sentiva isolato in mezzo ad una folla «diversa». Solo che questa idea di essere l’unico differente in una classe, un posto di lavoro o un ambiente, non potrebbe essere più lontana dalla mia esperienza. Sono cresciuto in una zona dove tutti venivano da qualche altra parte. Anche quelli che erano più simili agli altri bianchi inglesi in realtà erano per metà irlandesi o scozzesi. La mia storia parla di una sorta di molteplicità nella costruzione dell’identità di ciascuno.

Il quartiere – e la Londra – del libro assomigliano a dove ha vissuto?
Per molti versi è una realtà paragonabile a quella della mia infanzia a Neasden, anche se non sono cresciuto in una «torre», a differenza di molti miei amici. La storia evidenzia una sorta di contenimento claustrofobico. Londra è un’enorme capitale, ma ci sono zone dove si vive come in una piccola città, con un mix costante di culture che si scontrano.

Il «Guardian» ha parlato dell’«energia feroce della lingua» che impone il ritmo al romanzo. E che forse ne è la vera protagonista. Quanto deve al linguaggio ascoltato per strada?
Sono un fanatico della lingua, giocare con le parole e capire come rendere certe situazioni è ciò che mi fa alzare dal letto la mattina. E pormi sempre nuovi interrogativi. Come posso rendere sulla pagina la conversazione che ho appena ascoltato dal macellaio o alcuni modi di dire gergali, senza che tutto sembri comico o grottesco? Le uniche «traduzioni» della lingua e dello stile della strada che ricordo nella mia infanzia, sono tratte da Ali G e Goodness Gracious Me (rispettivamente un personaggio tv creato dell’attore Sacha Baron Cohen come parodia dei giovani di periferia e una sitcom che esplora i conflitti generazionali nella cultura asiatica britannica, ndr). Erano divertenti, anche se è un problema quando una cultura o sottocultura sono rappresentate esclusivamente in forma parodistica. Così si scarta ogni traccia di arte da quella stessa cultura. Quindi, il lavoro che ho fatto sullo slang della periferia assomiglia ad una sorta di riaffermazione culturale.

[do action=”citazione”]Sono cresciuto con le sitcom che rappresentavano in modo comico lo slang e lo stile della «strada». Per questo il mio lavoro sulla lingua è una riaffermazione di quella cultura[/do]

In questo senso, quali autori hanno accompagnato la sua formazione?
Prima di tutto gli scrittori ebrei americani, come Saul Bellow e Isaac Bashevis Singer, che hanno descritto la vita della strada come le loro ascendenze culturali. Bellow in particolare insisteva su entrambi gli aspetti della questione: era e si sentiva ebreo e allo stesso tempo americano. Leggevo anche Derek Walcott e altri autori che affermano le proprie origini attraverso ciò che scrivono, come lo scozzese James Kelman. Anche Zadie Smith ha contato molto per me, visto che scriveva della stessa zona del nord-ovest di Londra dove sono cresciuto. Mi rivedo ancora con in mano il suo primo romanzo, Denti bianchi, che mi ha mostrato come si possa scrivere del luogo in cui si vive. Anche Samuel Beckett è stato molto importante. Ho capito che si trattava di qualcuno che lottava con la lingua parola dopo parola, cimentandosi in un scontro continuo con l’atto dello scrivere in sé.

Il suo romanzo è oppressivo, cupo, ma lascia comunque intravedere una speranza…
Non conosco un altro modo di vivere. Quando si abita in un quartiere come Neasden, circondati da culture, suoni, odori così diversi, è frequente assistere a scontri verbali, talvolta anche fisici. Crescere nel multiculturalismo è stato difficile. Ma non vorrei mai una società in cui tutti sono simili. Le persone possono sempre trovare il loro posto in mezzo alle differenze.