António Guterres ha espresso la disponibilità dell’Onu a organizzare una conferenza sul Libano. È terminata mercoledì la visita del segretario delle Nazioni unite che, in Libano da domenica, ha incontrato il presidente Aoun, il premier Mikati e il presidente del parlamento Berri, oltre che alte cariche religiose come il patriarca maronita Rai e il gran mufti sunnita Derian.

L’obiettivo è quello di «discutere su come possiamo al meglio supportare il popolo libanese a superare l’attuale crisi economica e finanziaria, promuovere pace, stabilità e sviluppo sostenibile».

Guterres ha visitato il paese da nord a sud, da Tripoli a Naqura, dove le truppe delle Nazioni unite comandate dal generale Del Col presidiano la linea che separa il Libano da Israele.

Ha visitato ciò che resta del deposito 12 al porto di Beirut, quello che conteneva le 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio che hanno causato il 4 agosto 2020 l’esplosione che ha ucciso oltre 200 persone, ne ha ferite circa 7mila e che ha distrutto interi quartieri della città.

Ha inoltre ribadito la necessità di «implementare riforme che rispondano alle richieste del popolo libanese di benessere, credibilità, protezione, trasparenza al fine di ridare speranza per un futuro migliore».

Riforme, accordo col Fondo monetario internazionale, crisi rifugiati siriani, bisogno di un’indagine imparziale sui fatti del porto, violazione israeliana dello spazio aereo libanese, sblocco dei fondi per il Libano raccolti dalla comunità internazionale dopo l’esplosione, risoluzione della crisi diplomatica con il Golfo e l’Arabia saudita in particolare, svolgimento regolare delle elezioni il prossimo marzo: questi i temi principali degli incontri.

Ad oggi, tantissime le conferenze già tenute su e per il Libano: Parigi I, II, III, Cedri, quella capeggiata dal presidente francese Macron in occasione dell’esplosione al porto. E il tema centrale sempre lo stesso: aiuti in cambio di riforme. Gli aiuti in molti casi sono arrivati, le riforme no.

Il governatore (da trent’anni) della banca centrale Salameh, uomo di Rafiq Hariri, inquisito in Francia e Svizzera per riciclaggio di denaro, ma non in Libano, è accusato da più parti di aver creato uno schema Ponzi che ha praticamente fatto sparire i tre quarti dei depositi bancari dei libanesi.

Facendo scoppiare la bolla finanziaria che aveva creato l’illusione di benessere, la lira libanese formalmente agganciata al dollaro a un tasso fisso di 1507 lire per dollaro, ha subito nei fatti una svalutazione continua, fino ad arrivare oggi al mercato nero a 27/28mila per dollaro. Inflazione esponenziale e scarsità di generi dovuta da un lato alla crisi e dall’altro all’impianto economico fortemente neo-liberista e imperniato sul terziario.

La produzione interna di appena un 20% del fabbisogno nazionale e il taglio dei sussidi statali sulle importazioni si traducono o in mancanza di medicinali – gli ospedali annunciano la «catastrofe sanitaria inevitabile» con la nuova ondata Covid – e di ogni altro genere primario e secondario o in prezzi proibitivi.

È impennato il costo del gas e del petrolio per cui anche l’elettricità, prodotta interamente a diesel, viene razionata. La classe media stipendiata in lire è quella più colpita, si creano nuove fasce di povertà e si allargano le vecchie. È in atto la più massiccia diaspora dai tempi della guerra civile.

Lo stallo in cui il paese è da due anni è tutto politico e la crisi ha rinsaldato i due assi interni e internazionali storici pro e anti Hezbollah, vedi la crisi con Riyadh e Golfo.

Aoun si è impegnato con Guterres affinché le prossime elezioni diano voce alle istanze popolari, ma nessuno crede più a una classe politica che ha portato il paese alla rovina e che si ripresenterà identica a se stessa a marzo.