“Col solo occhio che mi è rimasto aperto guardavo il mondo davanti a me, e quel mondo era piccolo e orribile». È una citazione da Isaak Babel, che in Storia della mia colombaia narra i pogrom di Odessa del 1905. Proprio da quei pogrom scapparono, per riparare in Canada, i coniugi Leib e Rachel Goldstein, genitori del pittore Philip Guston (Montréal, 1913 – Woodstock, 1980). Quello sguardo allucinato descritto da Babel deve essersi conficcato come un chiodo mnestico nella mente di Guston, che amava la poetica essenziale e complessa dello scrittore russo.
L’occhio incongruo
A partire dagli anni settanta, uno dei motivi ricorrenti della sua pittura è un occhio enorme, incongruo, fisso, disperato e dolce, inerme contro le visioni di un mondo «piccolo e orribile». Il pittore spesso si ritrae imbozzolato come una larva sotto le lenzuola, scorciato, depresso e goffo, con la grande testa poggiata sul cuscino e un’eterna sigaretta pendula da una bocca assente. In una lettera del 1974 a Dore Ashton, importante biografa del pittore, egli scrive che gli ultimi lavori «mi fanno sentire libero di usare qualsiasi capacità o immagine formale e plastica io possieda, anche tutti i ricordi del mio passato. La prego di perdonarmi il paragone immodesto, ma come Babel voglio dipingere di cose a lungo dimenticate».
Non si comprende il motivo per cui nel 1935, a ventidue anni, Phillip Goldstein cambia il cognome in Guston e al nome elimina una «l». Di certo nella sua vita c’era stata molta miseria. Le persecuzioni della famiglia a Odessa. Il poverissimo quartiere ebraico di Montréal. Il razzismo. Il trasferimento a Los Angeles. La disoccupazione del padre costretto a fare il rigattiere. La scoperta del suo suicidio. La morte del fratello Nat. E tutto questo, congiunto all’ambizione di una nuova identità da artista, forse fornisce una spiegazione. Ma alla fine ogni rimozione ritorna a galla, nello studio, di notte, trasfigurata. Con rifiuti di vita organica e inorganica. Con gambe, ruote, scarpe, orologi, muri e rottami. Quasi in una dimensione regressiva, la nuova figurazione di Guston viene alla luce come dai sogni, enigmatica e lucida, icastica e confusa. E questa figurazione sarà, dalla fine degli anni sessanta, la cifra autonoma e definitiva della sua arte e della sua vita.
A parlarci di questa vita è ora la figlia del pittore Musa Mayer (chiamata Ingie in famiglia, per distinguerla dalla madre che aveva lo stesso nome) in Night Studio Un ritratto intimo di Philip Guston (Johan & Levi Editore, pp. 291, euro 31,00). Attraverso un memoir molto sapiente e sfaccettato, in un fitto intreccio di autobiografia e biografia, la Mayer (anche direttrice della Guston Foundation) confessa il proprio oscillante rapporto col padre e la madre, Musa McKim, e apre a una panoramica più ampia sulla complessa vita del pittore fuori delle mura domestiche, con interviste ad amici e parenti, scritti critici e aneddoti.
Il primo «successo» di Guston è stato un concorso di fumetti, a quindici anni, quando una sua tavola venne pubblicata sul Los Angeles Times. Allora i suoi comics preferiti erano Krazy Kat di George Herriman e Mutt and Jeff di Bud Fisher. E sicuramente queste figurazioni sono da annoverare tra le fonti del linguaggio più maturo. In quegli anni, alla Manual Arts High School, incontra Jackson Pollock. Entrambi si faranno espellere dall’istituto per aver satireggiato i finanziamenti della scuola a un corpo di addestramento delle forze armate. Ma da quel momento le loro strade si dividono. Pollock ritorna a scuola e Guston abbandona gli studi. Si ritroveranno anni dopo nel fermento alcolico e astrattista newyorkese.
I grandi maestri italiani
Solo cinquant’anni più tardi Guson si vedrà conferita la laurea honoris causa dalla Boston University. Ma prima di intraprendere la sua caparbia strada da autodidatta, nel 1930 riceve l’ultimo straccio di formazione istituzionale all’Otis Art Institute di Los Angeles, dove incontra la sua futura moglie, copia i grandi maestri italiani (Giotto, Piero della Francesca, Masaccio, Mantegna, Paolo Uccello, De Chirico), si lascia trascinare da Picasso e dalle grandi prospettive dei murales dei maestri messicani, definendo una propria cifra formale e politica. Dopo un monumentale affresco contro la guerra e il fascismo, realizzato in Messico con l’amico Reuben Kadish e sponsorizzato da Alfaro Siqueiros, nel 1935 Guston si trasferisce a New York, dove, anche insieme alla moglie, realizza murales per edifici pubblici partecipando ai bandi della Works Progress Administration, nell’ambito della Federal Arts Project del rooseveltiano New Deal. A queste grandi narrazioni su scala monumentale, alterna la pittura da cavalletto, che prenderà piede con opere figurative sempre più piatte, che vireranno, alla fine degli anni quaranta, verso dimensioni frontali e astratte. Scrive la Mayer che questi dipinti «portano i segni delle rivelazioni del dopoguerra sull’Olocausto, immagini di arti umani accatastati che sarebbero ricomparse sulle sue tele una trentina d’anni dopo». Guston riceve importanti riconoscimenti in quel periodo, ma è inquieto nella sua produzione figurativa arrivata a un punto cieco.
Dopo una parentesi di insegnamento nel Midwest, ritorna con moglie e figlia a New York, con soggiorni sempre più frequenti a Woodstock. Il suo studio sulla Decima Strada nella Grande Mela è vicino a quello di Pollock, De Kooning, Rothko e Kline. Lì frequenta John Cage e le sue «ossessioni» sul «nulla», e stringe una grande amicizia col compositore Morton Feldman, che però non apprezzerà il ritorno di Philip al figurativo. «Si parla di Scuola di New York come se fosse davvero una scuola», dirà Guston poi, «ma le differenze erano moltissime». La critica conierà per lui la superficiale etichetta di «impressionista astratto». Ma la sua opera non aveva niente a che fare con la luce di Monet. Le tele di Guston erano un inquieto ammasso di pennellate vibranti, pastose e dense, dominate dai grigi e da cancellature, da addensamenti a tinte forti, con gestualità espressive all’interno di un’impostazione tendenzialmente formale e metafisica. Di queste pennellate, e di tutta la sua esperienza pregressa farà tesoro quando intorno al 1968 comincia a ridefinirsi il figurativo nella sua pittura.
Plauso di de Kooning
Considerato un eccentrico tra i pittori dell’Espressionismo Astratto, di cui è insofferente già agli inizi degli anni sessanta, Guston è tra i primi ad abbandonare indignato la Sidney Janis Gallery, che apre nel 1962 alla più «commerciale» Pop Art. Viene da chiedersi però quanto quella ventata pop abbia giovato alla sua nuova fase… Sta di fatto che, spostatosi definitivamente a Woodstock, prepara la mostra alla Malborough Gallery, che nel 1970 segnerà lo spartiacque della sua carriera. Tra critiche feroci e il plauso di artisti come De Kooning per la ritrovata libertà, Guston mostra un lessico figurativo del tutto inedito e personale, espresso con un apparente linguaggio fumettistico, brutale e lirico, tragico e comico, grottesco e visionario come allucinazioni ipnagogiche, in una trance perenne tra spirito abbattuto e battute di spirito.
Ora, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (Evento Collaterale della 57ma Biennale) è possibile osservare da vicino queste opere, fino al 3 settembre prossimo. Con cinquanta dipinti, per lo più dell’ultimo periodo, e venticinque disegni che vanno dal 1930 al 1980, la mostra si intitola Philip Guston and The Poets, curata da Kosme de Barañano e organizzata dal museo in collaborazione con l’Estate of Philip Guston (catalogo di Hauser & Wirth Publishers). Il curatore sonda le corrispondenze e reciproche illuminazioni tra le visioni di Guston e le esperienze estetiche di cinque grandi poeti del Novecento, Lawrence, Yeats, Stevens, Montale ed Eliot, oltre a offrire rapidi spunti sull’evoluzione artistica del pittore americano e la sua ammirazione per i maestri italiani: Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Tiepolo e De Chirico, come si legge nell’opera-manifesto Pantheon del 1973.