Nei primi anni Novanta, all’indomani della laurea ottenuta con una tesi su Storia e politica nella memorialistica letteraria polacca del secondo dopoguerra, un neolaureato italiano venne ricevuto da Gustaw Herling nel suo studio napoletano, certo di trovare udienza grazie alla sua indagine sui motivi che avevano spinto molti scrittori ad abbracciare la causa dell’internazionalismo comunista. Letta la tesi, Herling – allora il maggior memorialista polacco vivente – mostrò fastidio: di quei fatti, che non meritavano peraltro alcuna considerazione, si era parlato – disse – fin troppo. Quel che lo studente ignorava era che l’avere scelto La mente prigioniera di Czesław Miłosz come riferimento essenziale per spiegare i meccanismi seguiti dalla inteligencja est-europea nella sua adesione al comunismo, sarebbe risultato inaccettabile al maestro, che si era da poco messo alle spalle la polemica con il poeta polacco, una delle più memorabili diatribe intellettuali della seconda metà del Novecento. Se, infatti, per Miłosz a spingere gli scrittori verso il comunismo era stata una «morsicatura hegeliana», ovvero la fascinazione per il divenire storico nei suoi esiti compiuti, per Herling a costituire il movente della scelta erano state piuttosto la viltà, la paura, la stupidità, l’interesse.

Testimone dei sommersi
Prigioniero in un Gulag sovietico dal 1939 al 1941, Herling – diversamente da molti altri suoi colleghi di penna – era uscito dalla guerra indenne dalla presa hegeliana, ma anche in una sostanziale condizione di isolamento. Rimasto in Occidente dopo aver combattuto come soldato del Secondo Corpo di Armata del Generale Anders in Italia (dove aveva conosciuto Benedetto Croce), Herling non riusciva a diffondere la sua testimonianza di sopravvissuto all’universo concentrazionario sovietico: Un mondo a parte, pubblicato da Laterza nel 1958, non fu mai distribuito a causa di probabili pressioni da parte del Pci, e uscì solo nel 1996 da Feltrinelli grazie all’iniziativa di Francesco M. Cataluccio.
Stabilitosi definitivamente a Napoli a partire dal 1955, dopo aver sposato in seconde nozze la figlia di Croce, Lidia, Herling passò a lungo – grazie al Diario scritto di notte e uscito su «Kultura», rivista fondata insieme a Jerzy Giedroyc nel 1946 – come uno dei maggiori pubblicisti dell’emigrazione polacca; non, però, come un vero scrittore.

In effetti, Herling non identificava la letteratura con una narrazione esplicitamente fabulare, bensì con qualcosa di sotteso tra la testimonianza e l’osservazione, tra l’obbligo morale di ricordare i «sommersi» nel Gulag e un’esibita sfiducia, quando non aperta ostilità, per la finzione. D’altra parte, la sua mancanza di «fantasia naturale» gli suggeriva di costruire i propri testi partendo da prestiti e citazioni, orientandosi dunque verso una riflessione metaletteraria con finali aperti o multipli. Il Meridiano Mondadori dedicato a Herling Etica e letteratura, a cura di Krystyna Jaworska (pp. 1672, e 80.00) permette di seguire questo flusso di coscienza letterario nato dalla piena consapevolezza della coincidenza fra l’entrata in crisi della forma romanzo e l’era post-totalitaria.
Dopo avere imputato a James Joyce l’assassinio del romanzo, Herling polemizzò con il tentativo di resuscitarlo attraverso il nouveau roman, e in generale avversò le coeve ricerche formali nelle arti figurative e in letteratura.

Nel suo saggio introduttivo al Meridiano, Włodzimierz Bolecki segnala come Herling si contrapponesse alla consapevolezza post-nietzscheana della relatività della conoscenza, ribadendo il primato dell’elemento etico su quello epistemologico. Tuttavia, anche questa è una contradictio in adiecto: Herling era infatti perfettamente consapevole del fatto che in un contesto (post) totalitario ogni ritorno a un realismo inteso come descrizione fiduciosamente «oggettiva» di una condizione data a priori è impossibile e che pertanto l’esperienza letteraria non può consistere se non in una fuoriuscita dalla letteratura medesima.
A meno di non accettare all’interno del testo le norme della deriva concentrazionaria, come aveva fatto il sopravvissuto ad Auschwitz Tadeusz Borowski in Da questa parte per il gas, dove narratore, protagonista e lettore, rinchiusi all’interno dello stesso orizzonte morale del Lager, condividono la consapevolezza che l’unico valore cogente e universale è la sopravvivenza.

Per un verso, Herling ebbe buon gioco nell’accusare Borowski di essere volutamente rimasto «al livello della animalesca vita vegetativa del Lager», senza toccare «il problema della crisi morale dei nostri tempi»; per altro verso, affermando l’assurdità di un verdetto sull’uomo espresso «in base alle azioni che egli compie in condizioni disumane», Herling sembrava escludere la possibilità di un giudizio morale. Borowski non aveva fatto che realizzare il precetto dei prigionieri rimasti nel Gulag: «racconta tutta la verità su di noi, dì che cosa siamo stati costretti a fare».
Non è questa, del resto, l’unica contraddizione imputabile a Herling: nella sua opera, il narratore è insieme protagonista, testimone, osservatore ma anche commentatore moralistico dei fatti. Trasformando l’elemento letterario in scrittura di sé, Herling mescola continuamente (auto) biografia e finzione narrativa, rischiando di compromettere il dato di «verità» del racconto, che dovrebbe essere «garantito» dalla trasposizione letteraria della sua stessa vita. D’altra parte, la fuoriuscita dall’elemento fabulare avviene in Herling, paradossalmente, attraverso un’insistita sottolineatura della natura «fatica» del procedimento narrativo.
I racconti si presentano spesso come scatole cinesi, dove i piani diegetici si succedono in una prospettiva le cui origini risalgono tanto alla pittura rinascimentale italiana e fiamminga quanto al maestro riconosciuto della loro traslazione letteraria, Joseph Conrad.

Il pericolo più grande
I diversi livelli di intertestualità che intervengono nella prosa di Herling rimandano alle incisioni delle Carceri di Piranesi, che nel racconto La Torre vengono chiosate da un commento di Aldous Huxley: «Le scale non portano da nessuna parte, i solai non sostengono nulla». Commento da cui Herling aveva preso le distanze nel Diario scritto di notte, affermando che le invenzioni di Piranesi – di cui l’autore di Brave New World aveva denunciato la «perfetta inutilità» – in realtà smascheravano il «destino dell’uomo imprigionato in un mondo che è soltanto una sua creazione», visualizzando «il peso della carcerazione che l’uomo si impone da sé».

Il racconto riprende, citandolo, Il lebbroso della città di Aosta di François-Xavier de Maistre glossato dalle parole di Kierkegaard: «Quando il maggior pericolo è la morte, si spera nella vita, ma quando si conosce il (sic) pericolo ancora più terribile, si spera nella morte». Le Carceri di Piranesi diventano così l’esemplificazione concettuale di una consapevole autoesclusione dal mondo, da praticarsi qualora il pericolo che incombe sulla vita sia «più terribile» della morte stessa. E nella visione manichea di Herling, il pericolo più terribile della morte stessa è qualunque forma di cedimento, di pur minimo compromesso, con quel principio del «male» che avrebbe trovato la sua più compiuta espressione nel secolo dei totalitarismi.