Günter Wallraff, «faccia da turco», il fregoli del reportage, il camaleonte del giornalismo, è il testimone della Germania reale. Da più di quarant’anni Wallraff scrive inchieste sul paese dove oggi ci sono oltre 9 milioni di semi-schiavi marchiati con l’innocuo nomignolo di «mini-jobs». In tedesco questa espressione ha un contenuto ben più sostanzioso: Geringfügige Beschäftigung cioè lavoro scarsamente remunerato. Lavori da 450 euro. «Oggi, come ieri, la Germania dimostra di essere eccellente nella propaganda – afferma Wallraff, a Roma per ritirare il premio Morrione dedicato al giornalismo investigativo – La percezione esterna è di un paese che vive un boom economico e la Merkel è un modello di virtù. Il 50% della popolazione è invece nullatenente o indebitata. La proporzione tra ricchi e poveri è la più diseguale d’Europa: 40 milioni di persone, la metà degli abitanti, possiedono l’1% del Pil, mentre il 10% possiede i 2/3 del Pil. In nessun paese la sperequazione sociale è così estrema e tutti gli ultimi governi hanno contribuito a farla crescere. Il mio è un paese dove non si fanno figli, come in Giappone. E ci si definisce solo in base al lavoro. Quella che oggi chiamano «razionalizzazione» in realtà è un processo in cui ci sono sempre meno persone attive che lavorano sempre di più. Questa situazione riguarda tutti: dai precari ai manager. Non siamo una società di classi ma una società di caste, dove ci sono gli oligarchi e i pariah. Gli intoccabili sono i migranti, soprattutto quelli che non parlano tedesco e non hanno posto nella società».

Per spiegare il suo lavoro può essere utile un suo ricordo del 1969, quando è stato denunciato per «usurpazione di funzioni pubbliche» a seguito di alcune inchieste sotto copertura. Cosa è accaduto da allora?
La mia carriera è stata accompagnata da processi e tentativi di criminalizzazione da parte dei media. La metà della mia vita l’ho passata a difendermi in tribunale. Cercano di nascondere i risultati delle inchieste attaccandomi sul metodo che sarebbe falso, bugiardo, inaffidabile. Tuttavia non si può nascondere la verità di un fatto e ho sempre vinto. Nel 1969 sono stato processato perché mi ero spacciato al telefono per segretario del ministero degli interni. Il caso produsse un enorme impatto nei media. Mi ricordo che al processo c’era il ministro in persona. E c’era anche Daniel Cohn-Bendit. Per lui dovevano processare il ministro e non me. Fu allontanato dall’aula. Ma io fui assolto. Forse perché non volevano dare troppa pubblicità al fatto che in Germania allora si organizzavano esercitazioni paramilitari con la destra.

La sua idea di giornalismo investigativo l’ha spesso spinta a trasformare il corpo e a usarlo politicamente. Per questa ragione è stato arrestato nel 1974 in Grecia con l’accusa di essere un dissidente. Greco, naturalmente.
Quello è stato il mio ruolo più facile. Bastava non avere documenti, vestirsi in maniera credibile, e non dire una parola, anche perché io il greco non lo parlo. Era un ruolo spaventoso, rischiavo fino a 12 mesi di carcere in un posto dove c’era la tortura. Feci un’assicurazione sulla vita e partii. Volevo raccontare la vita dei prigionieri sull’isola di Yaros dov’era stato recluso anche il compositore Mikis Theodorakis. Quando riuscirono a farmi parlare dissi di chiamarmi «Hans Wallraff, operaio della Ford». La prima agenzia tedesca riportò questa notizia. Sono stato in galera per 14 mesi e per i due anni successivi ho risentito delle conseguenze. In compenso, sulla stampa tedesca si parlò a lungo della repressione nelle carceri greche.

Il suo impegno antifascista la portò a denunciare un intrigo internazionale ordito dal generale De Spìnola contro la rivoluzione dei garofani in Portogallo nel 1976. Come andò?
A raccontarla oggi non ci credo ancora com’è andata questa storia. Tutto è nato dall’incontro con un pastore tedesco in un bar in Portogallo dov’ero andato insieme a un’amica per visitare il paese della rivoluzione. Il padrone del cane era un tipo muscoloso che parlava molto e teneva a far capire che non era uno qualunque: era di destra, cercava valorosi patrioti per contrastare il nuovo regime. Tre mesi dopo mi travestii da trafficante d’armi internazionale, incontrai a Düsseldorf De Spìnola che riconobbi dal suo monocolo. La notizia uscì prima in Svizzera. Willy Brandt presentò un’interrogazione parlamentare perché un politico tedesco, un certo Strauss, aveva finanziato il colpo di Stato. Dimostrai che in Germania c’era chi minacciava la democrazia in un paese europeo. De Spìnola fuggì in Brasile dove fu accolto dal regime fascista. Corsi molti rischi. La mia casa venne bruciata insieme al mio archivio. Era un avvertimento alla mia famiglia.

«Faccia da turco» nel 1985 è un’inchiesta che ha venduto 5 milioni di copie. Ritiene che il suo paese sia grato verso i «gastarbeiter» («lavoratori ospiti») che hanno reso possibile il boom del dopoguerra?
Il suo successo è stato tale che ancora oggi i turchi apprendono il tedesco leggendolo. Il libro doveva essere pubblicato dal sindacato che però lo rifiutò. Mi ero travestito da turco, e non da tedesco. Questo era un problema per loro. La Germania non si riconosce ancora oggi come una terra di immigrazione. Il razzismo dichiarato non può esprimersi apertamente, c’è un diffuso antimilitarismo e pacifismo. Movimenti come Pegida sono sopravvalutati dai media. Il problema è un altro: il razzismo resta nella testa, indipendentemente dalla classe sociale o dal titolo di studio. Basta un nome turco, o una foto con la pelle diversa ed è difficile trovare un lavoro.

Lo scontro con il gruppo Springer è stato durissimo, come racconta in un altro libro. Sono arrivati ad accusarla di essere stato un informatore della Stasi. Cosa è successo?
Dal 68 all’89 sono andato in Germania dell’Est dove si trovavano gli archivi dei gerarchi nazisti. Era una fonte essenziale per individuare la loro identità all’Ovest. Con la Bild ho un rapporto di amore e di odio. Questo giornale è come un malato compulsivo, un padre violento che picchia i figli e promette di non farlo più. Ma poi ci ricasca. Nell’ufficio centrale hanno 8 metri di libreria di documenti contro di me. Dopo quell’accusa gli ho fatto causa e hanno perso. Credo che abbiano capito che trasformarmi in un nemico della Germania non funziona. Sono arrivati ad usare intercettazioni dal mio telefono fatte dai servizi segreti. Ciò che è fondamentale per il giornalismo tedesco è che la Corte Costituzionale ha approvato una legge – che porta il mio nome – per cui si possono usare metodi come i miei per svelare reati ben peggiori. Questo ha permesso a molti di fare questo lavoro.

Lo «Spiegel» l’ha accusata di aver fatto una consulenza per Mc Donald’s mentre pubblicava inchieste sul suo principale concorrente, Burger’s King. Come sono andate le cose?
Mi dispiace molto che lo Spiegel abbia preso questa iniziativa. Il vecchio caporedattore mi trovava antipatico e riteneva che rivendicassi un monopolio sulla morale. Con la nuova direzione le cose sono cambiate. È successo questo: un mio collaboratore da 8 anni mi sottrasse un Pc e cercò di vendere alcune informazioni alla Bild. Il colmo è che dall’intero archivio riuscì a prendere solo queste informazioni, e per di più in maniera scorretta. Persino la Bild rifiutò di pubblicarle. Mi ha fatto piacere che la Faz, un quotidiano conservatore, abbia dimostrato quanto fossero poco fondate queste accuse. In occasione di un incontro pubblico regalai ai vertici un libro sul vegetarianesimo e il compenso l’ho dato per metà alla mia fondazione e a una sindacalista licenziata. Ho fatto inchieste per 30 anni su Mc Donald’s e non sono mai stato tenero con i fast-food. Nell’inchiesta su Burger’s King ho dimostrato le condizioni di lavoro imposte da un franchising turco-russo che gestiva in appalto 180 ristoranti in Germania. Dopo, Burger’s King gli ha revocato l’appalto.


Inchieste sotto copertura. Programmi televisivi come «Team Wallraff» sulla rete tedesca Rtl. La fondazione «Work Watch» che finanzia i reportage di giovani giornalisti e raccoglie le denunce dei lavoratori. Ci spiega come funziona oggi il sistema-Wallraff?

Il mio è un lavoro solitario, ma ho sempre cercato di coinvolgere altre persone. Facciamo libri collettivi che raccolgono inchieste, l’ultimo è Die Lastenträger (facchini, un gioco di parole che indica chi «sopporta un peso nella vita», ndr.), dove scrivono giovani talenti del giornalismo come Caro Lobig che ha fatto un’inchiesta sull’azienda di vendita online Zalando. Su Rtl realizziamo una trasmissione da 4/6 puntate all’anno. Per me è stato anche un ritorno alle origini, ho realizzato reportage in fabbrica. Quando abbiamo trasmesso l’inchiesta su Burger’s King, questa azienda ha perso il 40% del fatturato, Mc Donald’s il 20%. Tutti promettono di cambiare qualcosa e talvolta la situazione migliora. La fondazione mette a disposizione avvocati o psicologi volontari e assistiamo anche finanziariamente le persone che denunciano la loro condizione sul lavoro. Da noi oggi arrivano anche quadri e manager che hanno bisogno di consulenza. Work Watch svolge anche un ruolo di mediazione nei conflitti. Contatta le aziende e chiede una soluzione con i lavoratori, altrimenti pubblica le notizie. I guadagni vanno ai giornalisti e alla fondazione per sostenere i suoi scopi.

Dopo qurant’anni si sente cambiato e come?
Questo lavoro non lascia spazio per la vita privata. Ma penso che questo sia il momento in cui ho maggiore influenza. Tra due ore ho un aereo. Andrò in un altro paese e mi vestirò da manager. Adesso la devo lasciare. Devo entrare nella parte.

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La scheda: una vita da camaleonte
Per Günter Wallraff è stato creato un neologismo in Svezia. La parola «wallraffa», o «walraffare», significa condurre un’inchiesta giornalistica sotto falsa identità. In quarant’anni Wallraff, 73 anni, è stato panettiere, barista, autista o fattorino, operaio, tedesco o turco. O immigrato somalo. Nel 2009 è uscito un film realizzato da una troupe televisiva in incognito «Nero su bianco. Un viaggio attraverso la Germania». Wallraff ha scritto anche un reportage pubblicato in parte dall’Orma editore nel 2012 («Notizie dal migliore dei mondi»). Sempre l’Orma ha pubblicato nel 2013 le inchieste «Germania anni dieci. Faccia a faccia con il mondo del lavoro», dove emerge la realtà del paese reale. Il suo libro più celebre è «Faccia da Turco» (Pironti, 1986). Un altro libro che ha scatenato polemiche è «Der Aufmacher», scritto nei tre mesi in cui si finse Hans Esser e lavorò da giornalista per il nemico storico «Bild», rivelandone i metodi. L’inchiesta continuò in «Zeugen der Anklage» che è diventato un film con il titolo «L’infiltrato» nel 1990.

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Leggi la recensione a Germania Anni Dieci (da La furia dei cervelli)