Sarà nei nostri cinema domani L’inconnu du lac, Lo sconosciuto del lago, il film più appassionante dell’ultimo festival di Cannes, che chissà perché il curatore del festival, Thierry Frémaux non ha messo in concorso (è stato presentato al Certain Regard). Eppure il regista, Alain Guiraudie, quarantanove anni, da noi conosciuto a pochi (ma il festival di Torino, nella fase di scoperte dei talenti lo ha invitato spesso), oltralpe è uno degli autori prediletti dalla critica di tendenza, nonostante quel suo porsi «fuori», lontano da Parigi, orgogliosamente radicato nella regione delle sue origini, l’Aveyron, nel sud della Francia, anche luogo dell’anima di tutti i suoi film – da Ce vieux rêve qui bouge(2001), Premio Jean Vigo e amatissimo da J.L. Godard, a Le Roi de l’evasion.
La risposta al quesito è piuttosto semplice: Lo sconossciuto del lago è un film che parla del desiderio, e delle sue possibili declinazioni, e lo fa nel microcosmo di una spiaggia gay distillando nelle sue immagini una potenza carnale di intensità struggente. Sesso occasionale, rimorchi, il rito vacanziero di innamoramenti subitanei, fughe nella pineta alle spalle della spiaggia, accelerazioni del cuore, timidezza, fragilità voyeur scandiscono un thriller nerissimo di un (impossibile) discorso amoroso: cosa siamo disposti a rischiare? Quanto è consentito perdersi, quanto invece ci si deve difendere? É bastato questo a farne il «film scandalo» del festival, gli organizzatori di Cannes si saranno spaventati dalle possibili conseguenze. Anche se poi, in Francia il film ha avuto il divieto ai minori di sedici anni: «Una cosa del tutto normale» dice Guiraudie. E un successo incredibile, che lo ha fatto richiedere in tutto il mondo – sarà anche al New York film festival nei prossimi giorni.
A portarlo qui, sfidando il bigottismo imperante, è la Teodora film di Vieri Razzini e Cesare Petrillo. Razzini si aspetta il divieto ai diciotto anni, le polemiche ma non i tagli: «Non avviene da tempo, è però vero che in questo paese su certe cose stiamo tornando indietro».
Ma un film «scandalo» Lo sconosciuto del lago proprio non è. A meno che fare l’amore non sia scandaloso. O se disturba che a farlo sono due (o più) uomini in sequenze hardcore. O ancora se mette a disagio l’irriverenza dei loro piaceri senza bisogno di alibi, la bellezza spudorata dei loro corpi anche quando sono troppo grassi e poco palestrati, che la macchina da presa accarezza morbidamente. Le immagini di Alain Guiraudie sprigionano la bellezza di una sensualità antica, gli organi genitali sono come affreschi, e gli uomini che popolano quell’eden d’estate, ci raccontano profondamente un maschile omosessuale.
Franck è un ragazzo bello, frequenta la spiaggia per fare sesso. Poco distante, oltre il confine del «rimorchio», incontra Henri, grasso, triste, che passa ore da solo a fissare il lago senza mai bagnarsi. Tra i due nasce un’amicizia, Henri non cerca il sesso ma lo invita a cena, invano. Franck non ha occhi infatti che per Michel, sconosciuto virile e tenebroso che diverrà il suo amante. Intorno a questa triangolazione ambigua, inespressa e a suo modo passionale, il film muove altre figure, un paesaggio umano con al centro il sesso, una sessualità pura, estetica, plastica. Filmata senza censure, alla luce del giorno e nella notte, sulle rive romantiche di un tramonto e nella brutalità della macchia verde.
«Volevo raccontare cosa significa l’ossessione amorosa e fino a che punto può arrivare. Sono partito da un mondo che conosco molto bene, e questo confronto è stato anche un modo per interrogare l’idea di comunità omosessuale, cosa significa per me, sull’idea più generale di comunità, se le persone della spiaggia possono essere definite come tali. Basta, infatti, avere la stessa attrazione sessuale per diventare una comunità?» racconta Guiraudie nella mattina romana.

Sei partito perciò da un’esperienza personale?
[Diciamo che nei personaggi che popolano la spiaggia del film ho messo elementi di persone che conosco, di storie che mi hanno raccontato, i miei dubbi. Sin dall’inizio avevo in mente un luogo di rimorchio gay che apparisse molto reale, e non uscito dal delirio del regista. Il film parla dell’amore, del desiderio nelle sue possibili sfacettature. È un film romantico con cui volevo esprimere un sentimento universale. Il nostro presente ha bisogno di nuovi orizzonti.

Però la tua spiaggia ha anche una forte dimensione mitologica.
Ma è proprio grazie all’interazione con il reale. Ciascuno di loro riesce a esprimere un aspetto dell’essere umano, a diventare una figura archetipica.

Dal punto di vista cinematografico lavori su un dispositivo molto preciso: l’unità di luogo. Ci sono la spiaggia, il  bosco e il parcheggio. Non vediamo mai i personaggi fuori da lì e non sappiamo nulla delle loro vite.
Era un punto centrale già nella sceneggiatura. La spiaggia, il lago, il bosco dovevano diventare elementi narrativi, e per questo c’era bisogno che fossero riconoscibili. Così potevo rendere il senso di ripetizione del luogo e della vita lì dei suoi abitanti. É come se fosse la stessa giornata che ricomincia, e che però è diversa perché qualcosa è accaduto il giorno prima. In fondo è anche il ritmo della vacanza, no? Il parcheggio invece è un elemento che crea tensione. La gente arriva, e cerca lì degli indizi, che macchina c’è, chi troverà sulla spiaggia … Funziona un po’ come la telecamere di sorveglianza, nel film e fuori, per lo spettatore.

Parlavi della routine vacanziera. Cosa ti interessa in questo movimento temporale?
Il fatto che ti costringe a un enorme lavoro sul punto di vista. Qualcuno mi ha detto che Lo sconosciuto del lago gli fa pensare a La finestra sul cortile di Hitchcock. Il mio punto di vista coincide in effetti con quello del personaggio di Franck. All’inizio avevo pensato di girare alternando una macchina a mano, alla Kechiche, a una fissa. La prima per esprimere la visione soggettiva, la seconda per quella oggettiva. Ho lasciato subito perdere. primo perché è molto di moda, e soprattutto perchè ho capito che mi interessava confondere i due punti di vista.

In quell’universo è come se il desiderio, nei suoi sbalzi più imprevedibili, divenisse immagine.
Fin dove arrivo per vivere il mio desiderio? È una delle domande che ricorrono. Insieme all’angoscia della solitudine, e a quella per la perdita di ciò che si desidera. La fine del film, che si chiude nell’oscurità, sull’attesa dell’altro e sulla solitudine di Franck, è per me molto importante. Esprime un’idea estetica, che è questo giocare sul limite, il giorno che va via e la notte che arriva, e cinematografica. Mentre giravo mi sono tornate in mente alcune sequenze di Lo Zio Boonmee, il film di Apichatpong, col quale ho parlato molto durante la preparazione. In particolare quando nella penombra appaiono le figure rosse, che lo zio mette a fuoco piano piano, e non sai se è perché la retina si dilata e nell’oscurità si vede meglio. È una sfumatura sottile, che rispecchia lo stato d’animo del personaggio.