«Volevo parlare dei problemi della nostra società attraverso delle persone normali, del popolo, seppur singolari» racconta Alain Guiraudie, che ha presentato in apertura della sezione Panorama del festival di Berlino il nuovo film Viens, je t’emmène (il titolo internazionale recita Nobody’s hero). Di fatto il problema è essenzialmente uno, la ferita del terrorismo che continua ad agitare la Francia nella sua profonda connessione con il razzismo. Sarà il giovane Selim a rappresentare questo groviglio di questioni irrisolte nel momento in cui busserà alla porta di Médéric (Jean-Charles Clichet) – informatico sulla trentina che incarna il «common man» – in cerca di un androne in cui rifugiarsi. Sulla sua presunta innocenza o colpevolezza speculano i personaggi così come gli spettatori, in quella che risulta essere un’indagine sociologica che osserva in controluce i meccanismi che portano alla fiducia o al sospetto. Guiraudie è sempre stato un attento osservatore delle dinamiche relazionali e degli schemi che la cultura fornisce, in Viens, je t’emmène è forte questa spinta così come non mancano le due grandi forze che attraversano il suo cinema, il sesso e la violenza. Médéric è infatti innamorato di una prostituta, Isadora (interpretata da Noémie Lvovsky) devota al proprio marito. A questo triangolo impossibile se ne aggiungono altri secondo il concetto di promiscuità caro al regista, seppure con uno spazio molto ridotto rispetto ad altri lavori come Lo sconosciuto del lago. La violenza troverà il suo posto nel finale, in un massacro risolutivo figlio del malessere che richiama quello di Pas de repos pour les braves. Ma in quest’ultimo film è scomparsa la natura lussureggiante, il contesto è interamente urbano e una nube sembra avvolgere le vite dei personaggi, costretti in una sorta di limbo. Seppur con la consueta ironia e parossismo, Viens, je t’emmène è infatti il film più realistico del regista francese, a cui abbiamo chiesto di approfondire le ragioni di questa svolta.

I suoi film precedenti erano per lo più ambientati in una Francia rurale in cui la natura era una forza molto prossima e presente. Al contrario, «Viens, je t’emmène» è girato interamente in città. Perché questa scelta?

Le ragioni sono diverse. Innanzitutto desideravo molto filmare la città di Clermont-Ferrand, volevo poi parlare di un’epoca molto precisa – faccio spesso film legati ad un tempo specifico – infine, non volevo ripetermi. Clermont-Ferrand ha una cattiva reputazione in Francia, ma per me è importante il fatto che sia una città al centro del paese, è la Francia profonda e ha anche una lunga storia, è la città di Vercingetorige che è una figura mitica per noi.

Una scena del film

Il fatto che il film sia girato solamente in un contesto urbano lo rende anche piuttosto oscuro rispetto ai precedenti.

Sì, infatti Clermont-Ferrand è una città molto fosca. Quando Krzysztof Kieslowski cercava una città francese che somigliasse a Varsavia, mi sembra per girare La doppia vita di Veronica, scelse Clermont-Ferrand. Sicuramente contribuisce a questa impressione il fatto che il film è ambientato in pochi luoghi, rendendolo un po’ claustrofobico. Inoltre abbiamo fatto molte riprese di notte e d’inverno, era da molto tempo che non giravo in questa stagione. Essendo poi il tema principale quello degli attentati, non c’è un’atmosfera molto gioiosa chiaramente. Ma non associo la città alla tristezza o alla melanconia, assolutamente. Certo, il fatto che il protagonista Médéric è condannato ad un coito interrotto e non arriva mai al piacere è importante, ma credo ci siano altre scene che hanno un segno di diverso tipo.

Il tema del terrorismo fa parte di un’indagine sulla società francese che appartiene al tuo lavoro, come l’hai affrontato?

È una questione molto legata alla Francia, chiaramente a causa della colonizzazione e del rapporto che abbiamo avuto con l’Africa. In passato abbiamo considerato queste persone inferiori e attualmente, per reazione, nei quartieri delle città francesi si sono create delle comunità ristrette perché altrove sono rifiutate, lo stesso accade con gli omosessuali, che si raggruppano in alcune zone per non rischiare di essere assaliti. Per me questo film è un modo per rendere conto della complessità del mio paese, distruggendo alcuni cliché e, allo stesso tempo, rafforzandone altri. Quando il protagonista sogna il proprio salotto invaso da musulmani, mi riferisco direttamente alla teoria della «grande sostituzione» promulgata dalle destre, ovvero quella secondo cui in alcuni anni gli islamici rappresenteranno la maggioranza degli abitanti del paese. Quella scena è una risposta anche al libro di Michel Houellebecq Sottomissione, che io detesto. La radicalizzazione dei giovani pronti a commettere atti anche estremi parla di un malessere, e il film è una reazione anche ad alcuni discorsi che abbiamo ascoltato dopo gli attentati del 2015, quando Manuel Valls criticò i sociologi e gli intellettuali che cercavano di comprendere il motivo di queste scelte, perché «provare a capire significa già giustificare».