«A Couto quella città piaceva molto con le sue case a un solo piano, immancabilmente ricoperte dal medesimo tetto di lamiera a quattro falde . L’onnipresenza degli alberi di mango, la foresta che quasi entrava in città e s’infiltrava sin nel cuore dei minuscoli cortili. Il rosso della terra. Lo snodarsi tortuoso delle stradine. Le mille asperità del terreno che parevano fatte apposta per costringere il passante a fermarsi a discutere dinnanzi a ogni soglia, a ogni rigagnolo, recinto, aiuola di manioca, ponticello di legno, a ogni filo per stendere i panni, albero di papaya, mucchio di rifiuti, mucchio di ferraglia, mucchio di sabbia. L’acqua che inzuppava il terreno Ovunque la vita usciva dal torpore, si moltiplicava, pigolava».

Così Sylvain Prudhomme nel romanzo I più grandi (traduzione di Anna D’Elia, 66thand2nd, pp. 172, euro 16) ci introduce all’epopea tragica eppur eroica di una nazione sospesa tra malinconia e memoria, rabbia e rassegnazione, la Guinea-Bissau a quarant’anni dall’indipendenza dal Portogallo, paese tra i più poveri al mondo e tra i più travagliati da crisi politiche e militari, crocevia del narco-traffico tra America latina ed Europa, oppresso dall’imperialismo americano, paradigma di un intero continente che fatica ancor oggi a liberarsi dai gioghi coloniali e neo-coloniali.

AMBIENTATO NEL 2012, la narrazione si svolge in un’unica giornata alla vigilia delle elezioni presidenziali e dell’ennesimo colpo di stato, aprendosi con una terribile notizia ripetuta di bocca in bocca come un mantra. Couto, chitarrista dei Super Mama Djombo (storica band degli anni ’70 e ’80 che era passata dai successi internazionali in salsa afro-creola a un suono tutto loro con canzoni che appartenevano e parlavano del paese e la sua gente nella loro lingua, il creolo guineense), viene a sapere della morte di Dulce, la Kantadura, voce femminile della band, fino a che non aveva sposato il nuovo capo di stato maggiore dell’esercito golpista. Al dolore per la perdita della donna amata in gioventù, si mescolano nella luce indolente del pomeriggio l’amarezza, la rabbia e la disillusione per le sorti del proprio paese in un susseguirsi di flash back.

ADDENTRANDOSI per le vie tentacolari della sua Bissau allagata da maree «molli e svogliate», un turbinio di ricordi riaffiora tra una miriade di radici aeree di mangrovia e di pozze ricolme di larve e alghe putride: le tournée in Africa, Europa e Sudamerica all’apice del successo negli anni Settanta, ma ancor prima la gloriosa epoca delle lotte indipendentiste che aveva visto Couto e compagni coinvolti nella guerriglia armata anticoloniale, fino alla visita di Amilcar Cabral – la Rivoluzione in persona, convinto che i popoli e i paesi devono poi reggersi sulle loro gambe dopo le rivoluzioni, assassinato nello stesso anno dell’indipendenza, il 1973 – cui il gruppo dedicherà liriche indimenticabili come Sol major para comandante, diventata quasi un secondo inno nazionale, e Guiné-Cabral, con cui avrebbero poi aperto tutti i loro concerti.

Per quella stessa sera, mentre i militari metteranno a segno il golpe, si prevede un concerto memorabile che riunirà vecchi e nuovi componenti del gruppo, per celebrare Dulce e insieme il tempo che fu, su ritmi struggenti ma non ancora privati di speranza, animati da un irriducibile spirito che solo una parola può tentare di esprimere: «baliera, qualcosa a metà tra il dondolio e il ballo, come il fluire e il rifluire del desiderio, degli oceani, degli astri. Baliera come il gran dondolio del mondo, l’universale sete di amore».