Il festival è appena iniziato ma sul Lido «sotto stretto controllo» – dissuasori, borse ispezionate anche lontano dal Palazzo del cinema appena si entra nella «zona» – una cosa è già chiara: l’immaginario americano è attraversato dalla necessità di reagire a Trump. Lo sapevamo, basta guardare alle manifestazioni organizzate in questi mesi, e inoltre il cinema è stato sempre uno dei terreni privilegiati su cui dare voce alle contraddizioni del Paese.

Stavolta però c’è qualcosa di diverso, non sono i singoli fatti – la guerra in Iraq o in Afghanistan, le Torre Gemelle ecc – è una condizione generale che viene messa in discussione, anche in modo obliquo, quando non è necessariamente il punto centrale della storia – come abbiamo visto in Downsizing di Alexander Payne – perché a Trump, alla sua disastrosa politica si deve reagire.

Dunque la realtà di neoliberismo, speculazioni spacciate come ricette per vivere meglio e soprattutto l’ambiente, il riscaldamento globale, che mette in causa la netta rottura dell’ex-tycoon agli accordi sul clima di Parigi e le sue conseguenze, vicine e future. Scivola nella trama del film di Schrader (First Reformed) anche se la sua iniezione di realtà sotto forma di guerrilla verde appare ancora più un pretesto rispetto alla guerra dei corpi, del desiderio, di un impossibile e semplice amarsi.

È il cinema invece il riferimento e la materia della narrazione per Guillermo del Toro, The Shape of Water come suggerisce il titolo è un film acquatico, amniotico fino all’ossessione in cui il regista messicano recupera la lezione creativa e (e sovversiva) della serie B per rigenerarla. Omaggio esplicito a Jack Arnold, ma anche a La bella e la bestia o a Et, i «mostri» insomma dell’immaginario, quelli che popolavano le sale inventando nella loro apparenza fantastica nuovi mondi, temerari e disturbanti.

È sopra una sala cinematografica che abita Elisa (Sally Hawkins) , ragazza muta con cicatrici sul corpo e nel cuore. Lavora come domestica in un laboratorio militare di Baltimora sotto la protezione di Zelda (Octavia Spencer), l’amica african american, che nell’America degli anni Sessanta si batte contro razzismo e segregazione, come il miglior amico di Elisa, Giles (Richard Jenkins) omosessuale, pittore ultracinquantenne di ritratti in stile fotografico che non piacciono a nessuno.

La realtà è quella di vintage splendente di grandi sogni e Cadillac che, come recita nel suo mantra il venditore, proiettano l’uomo nel futuro. E della guerra fredda, l’incubo del pericolo sovietico e il terrore indicibile del diverso. Un giorno accade che la ragazza Elisa scopre una creatura tenuta prigioniera nel laboratorio è un «mostro» un diverso ma piano piano, tra un disco di Glenn Miller e le uova che la ragazza gli offre nella pausa pranzo accade qualcosa che la scuote dal suo silenzio e dalla sua terribile solitudine. È amore (un altra ricorrenza nei film di questi primi giorni almeno in concorso), anche se fa paura solo pensarlo. Ma quel mostro il cui corpo viene martoriato dal fanatico responsabile militare dell’istituto, Michael Shannon sempre perfetto come psicopatico, è davvero più spaventoso della «realtà» fuori, dei militari pronti a tutto per compiere i loro piani – nel caso spedire l’uomo sulla luna – dell’ottusità di governi uguali da una parte e dall’altra del mondo?

E lì, sul confine tra mondo acquatico e aria, nello splendore della creatura che gli indios veneravano come un dio, del Toro libera un nuovo immaginario ibrido, poetico, in cui la Storia danza con le fantasmagorie – come già accadeva parlando della Spagna franchista in Il labirinto del fauno – in un racconto che tra realtà della storia e forme mitologiche, due tensioni che attraversano tutti i suoi film. Lo fa con leggerezza, senza intrappolarsi nelle metafore (o negli eccessi da poetica delle nostalgie), fluttuando come i due protagonisti in tutto il cinema, perciò il musical – o l’Atlante di Jean Vigo, nel suo abbraccio acquatico di fantasmi e fiabe.

Il principe, la Creatura (che è Doug Jones) non ritroverà fattezze umane, lui e la ragazza saranno sempre diversi, eppure i loro corpi galleggiano ribelli ai «gender» e alle «razze» in quell’acqua, fanno l’amore sensuali, magnifici, incoscienti. E se la fantasia deve essere distrutta, può essere molto pericolosa, può generare «mostri» appunto capaci di rivelare quelli «veri» dietro alle loro facciate rassicuranti, la fragile (ma solo in apparenza) eroina di del Toro ci dice, invece che è proprio lì che si sconfiggono le paure senza esorcismi ma nel vissuto. È la sfida dell’immaginario, la sua potenza sovversiva.